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Pastore e pecorella

La vipera e il pastore

Un giorno un pastore stava a guardia delle pecore, quando ad un tratto sentì un fischio. Curioso di sapere chi avesse fischiato, s'inoltrò nel bosco, e vide una vipera accerchiata dalle fiamme, che era per morire.

Egli stese l'uncino e quella vi s'attorcigliò, e strisciando sul braccio del pastore, gli si attorcigliò al collo.

"Portami presso mio padre, che è il re dei serpenti" disse la vipera.

Il pastore camminava per il bosco, quando vide tante serpi intrecciate.

Allora la vipera fischiò, e le serpi si destarono tutte.

Il padre della vipera disse al pastore: "Che vuoi per premio di aver salvata mia figlia?".

"Vorrei capire il linguaggio di tutti gli animali".

"Va bene, io te lo dico, ma tu non lo devi palesare ad alcuno se nò subito morrai".

Allora il serpe sibilò tre volte, e disse: "Adesso capisci il linguaggio di tutti gli animali, vattene, e Dio sia con te".

Il pastore come camminava per il bosco, capiva tutto ciò che dicevano gli uccelli, quando cantavano.

Come arrivò vicino alle pecore, si buttò sotto un albero e due uccelli, che stavano sui rami, dissero:

"Quel giovane che sta seduto sotto quest'albero, non sa che dove è coricata quella pecora nera, c'è una buca piena d'oro".

Il pastore a sentire ciò, subito si mise a scavare e trovò l'oro.

Così divenne ricco, e campò tant'anni contento.

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Lavori in famiglia

La fortuna di cinque fratelli

C'era una volta un padre che aveva cinque figli. Erano cresciuti all'aria aperta e senza educazione: il padre non aveva fatto le scuole. Diventati grandi si trovarono senza un mestiere e senza un lavoro che desse loro pane e sicurezza. Il padre, che pur essendo ignorante era però fine di cervello, un giorno che li vide più sfaccendati del solito, disse loro: "Figli miei, andate per il mondo e tornate dopo aver imparato ognuno un mestiere".

I cinque non se lo fecero ripetere: armi e bagagli, partirono ognuno per la sua strada. Passò un anno e un bel giorno il padre se li vide tornare. Abbracci, baci... felicità. "Bhè, figli belli, avete imparato un mestiere?", domandò il padre. Il maggiore, petto in fuori e viso fiero: "Sono stato con un maestro d'asce e ho imparato a costruire barche!", disse subito e tutti i fratelli giù pacche sulle spalle: "Bravo!" "Un bel mestiere!". Il padre, anche lui, approva e poi, con uno sguardo, interroga il secondo. Il secondo: "Vi sembrerà strano il mio mestiere: io ho fatto il guardiano e a furia di guardare ho esercitato la vista fino al punto che vedo molto lontano. Un esempio? Subito!" e sforzandosi di guardare oltre l'orizzonte, descrisse: "Adesso al paese don Pippinuccio sta scolando la botte del vino dentro alle bottiglie da litro e nella bottiglia che sta riempendo adesso c'è una mosca e lui non se ne accorge!", concluse e attese che la meraviglia di tutti si esprimesse perché il paese distava da casa più di cinque miglia e la cantina di don Pippinuccio era dentro il cuore del paese. Infatti, il silenzio che seguì vide la trasformazione di tutte le facce che spalancando la bocca, insieme, dettero voce all'approvazione: "Mho'ooooo'!" e risate e pacche di soddisfazione. Il terzo aveva imparato a colpire, con qualsiasi arma o cosa, un bersaglio a distanza: pacche e risate. Il penultimo? Il penultimo provocò un piccolo dispiacere al padre e agli altri fratelli: aveva imparato a rubare senza farsi accorgere... "Va be', può essere utile per i lavori delicati e.... Per ora diciamo che è un mestiere!", ammise a malincuore il padre. Il minore, confessando di aver imparato ad imitare e capire la voce degli uccelli, riconobbe che non era una cosa che stesse alla pari con quanto avevano imparato gli altri e nè poteva essere un mestiere. "Comunque...", stava dicendo il padre, quando, all'improvviso: "Sccccc!", intimò il piccolo. Tutti tacquero e in primo piano si udirono alcuni cinguettii: due uccelli sul frondoso albero lì vicino stavano scambiandosi le notizie del giorno: "Dalla torre delle sette strade il mago ha rapito la principessa e la tiene prigioniera". "Sì, l'ho saputo anch'io", diceva l'altro uccello "E ho saputo anche che il re è molto dispiaciuto e soffre come un uomo senza l'allegra persona della principessa! Cip cip!", conclusero e volarono via. Tutti, dopo aver accettato l'intimazione, rivolsero i loro sguardi verso il piccolo. "Dalla torre delle sette strade il mago ha rapito la principessa e la tiene prigioniera! Questo si stavano dicendo i due uccellini.", tradusse il più piccolo della famiglia. Lo sbalordimento fu pari alla soddisfazione di riconoscere nel fratello/figlio un giovane capace di rendersi utile. Subito i sei, padre compreso, cominciarono a pensare: "Per arrivare alla torre bisogna attraversare il fiume?!". "Tu, prepara una barca! Si parte!", disse il padre. Il maggiore, con maestria, fabbricò una barca capace di trasportarli tutti. Attraversarono il fiume e, giunti sull'altra riva furono bloccati dal secondo fratello che, allargando le braccia, contenne l'avanzata degli altri. "Fermi tutti! Vedo. Vedo la torre e vedo anche che il mago è assente. La principessa piange alla finestra e....", stava descrivendo il secondo.. "E noi approfittiamo per raggiungere subito le sette strade e liberare la principessa dalla prigione della torre!", continuò il padre, spronando i figli a far presto. 

Proprio una fortuna! Infatti, quando giunsero, il mago non c'era veramente. Pare si fosse allontanato per altri furtarelli o rapimenti. Il fratello mano leggera, quello che sapeva rubare senza farsi accorgere, si arrampicò sulla torre e, aprendo il cancello che la teneva prigioniera, invitò la principessa a seguirlo. Appena fuori dalla torre, gli altri misero la principessa  sopra una portantina preparata lì per lì e la condussero velocemente alla barca. Erano a metà tragitto, i remi si muovevano come ali sull'acqua, quando il giovane che sapeva vedere lontano disse: "Vedo! Vedo avvicinarsi il mago, che - fuoco e fiamme dal naso e dalla bocca - vuol riprendersi la principessa". L'altro, che colpiva bene da lontano, sfoderò una freccia e, come una saetta, la scagliò lontano dritto al cuore del mago che, nemmeno se ne accorse, dal movimento si ritrovò steso/morto.

Arrivati in città, condussero la fanciulla al palazzo reale e raccontarono al re quello che avevano fatto. "Adesso il re farà sposare la principessa al figlio grande", stava cinguettando un uccello ad un'altro che poggiato sulla balaustra assisteva alla scena. "L'ho sentito mentre il re lo diceva al Primo Ministro quando ha avuto la notizia! Cip cip!", concluse il ciarliero uccellino. "Adesso il re ti farà sposare la principessa!", sussurrò il fratello più piccolo all'orecchio del fratello più grande.

Squilli di trombe, rulli di tamburi. "In questo fausto giorno in cui il re vede realizzato questo prodigio ed in cui la felicità è al colmo, questa Maestà concede al primogenito di questo avveduto padre la mano della principessa mia figlia. Ho detto e sia fatto!", ordinò il re, squillando più delle trombe e tuonando più dei tamburi.

Le nozze si svolsero in quel preciso momento mentre ad ognuno dei fratelli veniva consegnato il decreto regale che li nominava principi delle quattro contrade. Il padre? Anche lui ebbe un premio: ospite a vita nel palazzo regale e Primo Consigliere di corte. Come vissero? Felici e contenti!

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Il Ciabattino

C'era una volta, non molto tempo fa, un prete. Sua sorella, vedova di guerra (della prima guerra), gli aveva affidato, in punto di morte, la figlia. L'orfanella crebbe con tutto l'amore che lo zio prete poté riservarle: buon cibo e buona istruzione. Era simpatica a tutti, allegra e ubbidiente finché... non si innamorò di un modesto ciabattino. Inutili le raccomandazioni dello zio che si opponeva a questa  decisione, lei voleva assolutamente sposarlo. Dopo  tante litigate, l'ostinata ragazza, se ne scappò con il suo innamorato e il prete, a malincuore, fu costretto  a sposarli.

Come padre putativo, al prete toccava fare la dote alla fanciulla ma l'accorto zio, invece dei soliti panni-a-otto servizio di piatti e quant'altro era stabilito dall'usanza del paese,  regalò alla nipote solo una statua. "Una statua? e che me ne faccio di questa statua?" sbraitò il novello sposo quando gliela mostrò la sua spaesata sposina. "E' un modo per vendicarsi per non avergli ubbidito!", pensò ad alta voce la novella sposa. Intanto i due si trovarono una casa e, tagliando i contatti con zi' prete, cominciarono la nuova vita. La nuova vita, sì ma non bella: il ciabattino lavorava un giorno sì e tre no, il mangiare si vedeva a malapena nella credenza di quella casa e la ragazza, abituata all'abbondanza in casa dello zio, si ritrovò ridotta in miseria insieme al marito che, per questi motivi, diventò un altro dopo il matrimonio. Litigavano continuamente, mai niente andava bene, una cosa per uno era rossa per l'altra era nera: un continuo battere e ribattere. Lo zio, da lontano, seguiva le vicende senza intervenire, anzi ostentava una vita da crapulone. 

"Quello è tuo zio! Un prete del diavolo. Un mangiapaneatradimento: ecco cos'è tuo zio. Noi a stringere la cinghia e lui se la gode, alla faccia nostra.", si lamentava il giovane. 

Lei, con tutto che era istruita, si mise - per aiutare la baracca - a filare la bambagia per buscare una lira al giorno, ma anche questo non bastava a creare tranquillità. Arrivarono i figli insieme ad altri anni di sacrifici. Lui, ancora, non aveva ingranato: sembrava che la gente lo facesse apposta a non consumare le scarpe. Quell'arte dava poco guadagno ed i bisogni erano cresciuti con la nascita dei figli. Nella casa era un continuo piagnucolio dei bambini affamati e la povera madre rimpiangendo amaramente il benessere che avrebbe goduto sposando un altro, continuava a litigare col marito: continue scenate e baruffe, che avvelenavano sempre più la loro vita.

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Un giorno circolò la notizia che il prete stesse per morire.

La donna piantò baracca e burattini e corse da lui. Il marito, a casa con i bambini, aspettava la triste ma buona notizia: sperava d'ereditare i beni di quello zio senza cuore. A sera, la madre dei suoi figli, tornò. "Si è ripreso. Sta meglio.", raccontò la donna al marito. I giorni seguenti la donna tornò a far visita allo zio che era in via di guarigione. E un giorno, facendosi forza, raccontò i suoi casi al prete confessando anche le sue speranze sulla disgrazia dello zio e come sarebbe cambiata la loro  vita con la sua morte poiché avrebbero ereditato. "Mi dispiace, nipote mia!", disse il prete, "Ma io ti avevo avvertita. Non era matrimonio per te. La tua istruzione, la tua bellezza e simpatia...", e continuò la sua predica, concludendo "Io ho potuto darti solo quella statua... non potevo darti altro. Ma tienila cara, figlia mia, attenta a non romperla e nemmeno devi pensare di venderla, tienila come ricordo di tuo zio."

A casa raccontò tutto quanto, di quello che lei aveva raccontato allo zio e di quello che lo zio le aveva detto e raccomandato a proposito della statua. Il marito, che aspettava una conclusione diversa che fosse in linea con le sue speranze: ereditare e cambiare vita, a conclusione, prese la statua e, dopo aver coperto di vituperi la povera donna e ingiuriato quello zio prete che era peggio del peggior uomo della terra, la scagliò contro il muro.

La statua, contro il muro, si ruppe in mille pezzi. Ma..., oh meraviglia! Dal muro si vide colare una pioggia di monete d'oro e nell'aria si videro svolazzare tante farfalline di moneta cartacea.

I due litiganti rimasero a bocca aperta e mentre i loro sguardi si incontravano, i bambini già giocavano a lanciare in aria, divertendosi da matti, le sonanti monetine e a tentare d'acchiappare a volo quelle strane farfalline.                        Lo stupore, le risate dei bambini, l'inaspettata e tanto desiderata novità spinsero i due l'uno verso l'altra. L'abbraccio sembrava non avere fine così come sembrò destinata la loro ritrovata felicità.

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 CARDELLINO

L'uomo del cardellino

C'era una volta un giovinotto che aveva grilli per la testa. Viveva col padre una vita agiata e lui, il padre, non gli faceva mancare nulla: piuttosto si privava lui del necessario per accontentare il bel figlio di mamma (senza mamma). Alla morte del padre i grilli che aveva per la testa si trovarono in compagnia di un cardellino che il padre gli aveva lasciato in eredità, unico bene.

Il giovinotto non disse nulla ma pensò bene che era giunto il momento di trovarsi un lavoro. Prese il cardellino e s'avviò per il mondo in cerca di fortuna. Giunto al primo paese, bussò alla porta di una contadina, e la pregò di tenere in consegna l'uccello per dargli la possibilità di andare presso i diversi signori a domandare lavoro. La donna non se la sentì di prenderlo in consegna: "Tengo un gatto in casa e, lo sai, quelli sono dispettosi... non posso proprio farti questo piacere."

"Ma io non posso portarmelo appresso.", disse il giovane. Poi gli venne l'idea: "Mettetelo in una scatola di cartone. Ce l'avete una scatola di cartone? Ci facciamo due buchi per l'aria e l'uccello è al sicuro!"

La donna, con la santa pazienza, andò a prendere la scatola, fecero i buchi e misero il cardellino dentro con un mezzo fico maturo e un tappo pieno d'acqua: quanto bastava per il tempo che il giovane pensava di stare via.

La strada era lunga e il giovane partì subito. Quante richieste di lavoro fece, tante risposte, sempre uguali, ebbe: "Siamo al completo!" La sera tornò dalla donna a riprendersi il cardellino. "Te l'avevo detto!", disse rattristata la donna, "Mi dispiace ma il gatto, non so come ha fatto..., si è mangiato il cardellino." "Allora il cardellino sta nella pancia del gatto?!", domandò rispondendosi il giovane, "Se così stanno le cose, mi prendo il cardellino che sta nel gatto." e istantaneamente afferrò il gatto che se ne stava lì vicino. "Ma cosa ti salta in mente? Lascia il gatto!", protestò la donna. Non ci fu nulla da fare, la logica del giovane era fuori discussione. La donna le tentò tutte ma alla fine fu costretta a cedere il gatto. Tutto allegro il giovanotto continuò il cammino e, giunto ad un altro paese, si fermò ad un'altra casa e ad un'altra donna chiese di tenergli il gatto. "Devo trovare un'occupazione e il gatto mi è d'impiccio." La donna prese il gatto e il giovanotto andò a vedere come strappare la giornata.

Al ritorno si appurò che il maiale aveva divorato il gatto. "Oh madonna santa!", s'incazzò il giovane, "Ma bastava stare attenti, santo Dio! E adesso?" "Adesso non ci possiamo fare più niente!", s'illuse di concludere la donna. "Ah, sì... è bello così... uno torna, sicuro di riprendersi il suo e che succede? Che una donna senza onore gli dice non ci possiamo fare più niente. E no, cara signora. Ci possiamo fare qualcosa, ve lo dico io: il maiale ha mangiato il gatto? Il gatto è nella pancia del maiale? Io per prendere il gatto devo avere il maiale!" "Ma tu sei matto?! O stai scherzando?", scattò la donna. Il tira e molla durò parecchio e, per il chiasso che fecero i due, molte persone si presentarono a curiosare. Alla fine il giovane ottenne quanto voleva da quella povera disgraziata che cedette per stanchezza.

Ripreso il cammino considerò la tecnica e si compiacque della sua furbizia. Se le cose continuavano così sarebbe diventato un grosso proprietario, avrebbe avuto case, pascoli e tutto quello che l'immaginazione gli permetteva di individuare. Sognando sognando si trovò ad un altro paese. "Buona donna, vi dispiace se vi lascio qui il porco? Vado in cerca di trovare lavoro e non posso portarmelo appresso. Mi fareste un grande favore!", pregò il giovane la prima donna nella quale s'imbatté. La buona donna ebbe compassione di quel viandante e gli permise di lasciar momentaneamente il maiale. Il ragazzo se ne andò e la donna continuò a fare gli affari suoi: andava in cerca di cicorielle e lì vicino c'erano, ai limiti del fiume, una varietà di alberi e qualche quercia che attirarono il maiale. Ma, mangiando mangiando, l'animale cadde nel fiume ed annegò trasportato dalla corrente.

Quando il padrone, riuscite vane le ricerche di lavoro, tornò a richiedere il maiale, seppe della morte del porco e della sua sparizione. Si mise a gridare come una bestia. Alle grida accorse la figlia della donna. Il giovane, vedendola, secco secco disse: "O mi dai il maiale, o dammi la mano di tua figlia". A tanta pretesa, la donna montò in furia, e respinse violentemente il giovinotto. "Ragioniamo...", andava dicendo il cristiano, "Il porco è sparito su questa terra? E la cosa è semplice: io in questa terra devo rimanere! Ma siccome non posso rimanere su questa terra senza nessuna proprietà, mi prendo la bella figliola." La fanciulla proruppe in una risata e alla madre che tentava di contestare le richieste di quel prepotente, disse: "Mamma... non ti agitare. Statti calma." e guardando negli occhi il pretendente, "Tu sei furbo, ma sei anche un ragazzo che mi piace e io per la tua furbizia e per il mio piacere, accetto!" "Ma...", tentò di protestare ancora la donna considerando che la situazione le sfuggiva di mano, "ma che andate dicendo? Qui sono diventati tutti matti!" "Certe volte la pazzia fa bene!", si trovarono a dire insieme i due giovani con gli occhi  negli occhi. La cosa non finì lì sulla riva del fiume ma in una chiesa che vide i due innamorati e dichiarati marito e moglie.

C'è giustizia a questo mondo? Sì, perché il giovane marito da allora sostenne col suo lavoro la sua nuova famiglia e la bella e buona ragazza non si pentì mai di averlo sposato.

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  VENTO FAVONIO

La favola di Favonio

C'era una volta una famiglia composta da padre, madre e tre figli. Una famiglia come tante altre in un paese come tanti altri. Il padre, pezzo d'uomo, faceva il contadino. Ogni mattina, appena la luna aveva finito il suo dovere e ancor prima che il sole si affacciasse a vedere la nuova giornata, il contadino, povero come tutti i contadini poveri, si avviava al suo lavoro: lavorava a giornata nel grosso tenimento di un ricco signore. La strada era lunga e, per fortuna, la percorreva con altri contadini che, come lui, andavano a buscarsi la giornata. Vi lascio immaginare come a quei tempi la giornata dei lavoratori di campagna fosse molto impegnativa e sempre uguale. Anche la domenica e le feste comandate erano giornate di lavoro, con una piccola differenza: si lavorava sotto il sole o la pioggia solo fino a mezzogiorno mentre gli altri giorni si restava nei campi fino a che il sole non scresceva. Era bello però godere della lunga camminata per raggiungere i campi con in bocca il sigaro e la chiacchiera con i compagni. Poche le pretese e molto il lavoro. Capitò che una mattina, prima di avviarsi e proprio sulla porta di casa prima di richiuderla, egli si rivolse alla moglie, che cominciava la sua giornata di massaia, e domandò: "C'è del pane?". Ella rispose di no. "Oggi mi piacerebbe mangiare del pane quando torno" disse, chiudendo piano la porta. "Dammi una cosa di soldi, allora per comprare il grano!" disse la donna. "Prendili dalla pignatta." le disse l'uomo poggiando la bocca alla porta già chiusa. 

Il marito, pregustando il croccante pane di giornata, con la mente al ritorno, se ne andò in campagna. Maria, la moglie,  si vestì e, con i soldi, se ne andò al paese a comprare il grano. Comprò il grano e lo portò al mulino per farlo macinare. Erano passate un paio d'ore e già la donna se ne tornava a casa con il sacchetto di farina bianca dentro la cesta pronta per impastare e preparare le forme di pane da portare al forno.

 Con il tarallo di stoffa in testa e la cesta in equilibrio su di esso, Maria se ne tornava dal mulino pensando a come meglio fare per organizzarsi la giornata: "Devo comprare una figlietta d'olio, riscaldare l'acqua e, col lievito che ho nello stipone, impastare. Ma prima devo sistemare i ragazzi: Giovannino lo mando dalla nonna, Feluccio, quello è piccolo e si sta buono buono nel seggiolone, Menico è un problema, è impiccioso e non si sta con nessuno... vuol dire che lo tengo sott'occhi dalla finestra mentre, davanti a casa, lui gioca con gli altri bambini." Aveva sistemato tutti i tre figli e cominciava a godersi la giornata: le piaceva fare il pane e le piaceva anche vederlo mangiare dalla sua bella famigliola. Ci fu una volta... prima che nascesse Feluccio e che Menico era più piccolo però, che successe un guaio che per fortuna era acqua passata. Il grande, Menico, quel giorno, approfittando di un momento di bisogno di Maria, era rientrato in casa e, con le mani sporche, aveva voluto scimmiottare la madre che impastava. Le mani di Menico, non solo erano sporche di fango ma nel fango era rimasto un sassolino, piccolo piccolo che non pareva proprio. Quando la donna era tornata a lavorare la massa aveva notato un colore strano, ma soprappensiero aveva ripreso il lavoro e, nella quantità, quel difetto era scomparso. Fatto i pani, con la tavola del pane l'aveva portato al forno e la sera, a tavola... Successe! Quando si dice la combinazione: fu proprio Menico che morsicò la fetta di pane che teneva dentro il sassolino. Un dente rotto e pianti di Menico. Si scoprì poi tutto il fatto... fatto sta che al bambino si aprì tra le labbra una piccola finestra che, per fortuna, si è chiusa perché il dente di latte lasciò il posto al dente nuovo.

Ricordava tutto questo Maria mentre col suo cesto in testa stava quasi per arrivare a casa. Ma...

"Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi" dice un proverbio.

Ma, un forte vento, compagno della polvere che sollevava, dando poca visibilità alla strada da percorrere, creò un vortice sulla testa di Maria e... (a vederlo da lontano, sembrava un abbraccio quella folata di vento) e capovolse la cesta in cui stava la farina. Tutto perso. E ancora la striscia di vento si arricchì con quella farina diventando una stradina nell'aria che prendeva il volo. Maria quasi non ci credeva ma le lacrime si affacciarono subito e lasciarono il segno sulla faccia infarinata.

"Poveri noi!" gridò con le mani nei capelli. "Poveri noi!" ripeteva con varie intonazioni.

Ma la signora Fortuna, che stava seguendo quel vento sbarazzino prevedendo qualche danno, o forse perchè Fortuna si trovava a passare da quelle parti, quella, la Fortuna della sua casa, apparve e, facendo finta di non sapere, le domandò: "Buona donna, perché piangi?" "Se sapeste!!... Poveri noi! Il vento...Un vento forte mi ha capovolto la cesta piena di farina e...".

 "Zitta, non piangere più; va per la via di S. Marco, e troverai un grosso portone di ferro; prenderai un mattone, e picchierai. Vedrai che uscirà Favonio; gli dirai quello che ti è successo. Lui ti darà un asino, ti metterai sopra, e ritornerai a casa. Tu fa' come ti dice e tutto s'aggiusterà. Va'!" le consigliò Fortuna:

Disse la donna: "Farò come tu dici".

Camminò a lungo ma non c'era la stanchezza nelle sue gambe anzi determinazione per risolvere quest'altro guaio che le era capitato. Vide il portone, prese un mattone e picchiò.

Uscì Favonio e domandò: "Chi sei?"

"Sono io, Maria di Tatà-Ciccio. Il vento mi ha portato via la farina e..." gli disse tutto con semplicità come se tutto ciò fosse naturale. E, come se tutto questo fosse naturale, Favonio le spiegò: "Va' in quella casetta, prendi l'asino, e ritorna a casa; bada di non farlo sudare e dagli da bere e da mangiare. Poi dì tre volte: "Asino mio, dammi danari, ed esso ti accontenterà".

 Infatti la donna ritornò a casa, e dopo aver fatto quello che le aveva detto Favonio, l'asino scaricò dalle budella tanto danaro da empirne due casse.

L'asino fu restituito. Il pane, quello bianco di prima scelta, comprato. La famiglia non si sprecò in chiacchiere e nemmeno ascoltava Maria, che dava voce al racconto della sua avventura. Quella volta Fortuna e Favonio avevano fatto la felicità di una famiglia che sicuramente non dimenticò mai e, di generazione in generazione, si raccontano questa storia e vivono felici e contenti.

 A pensarci... e se tu fossi un discendente di Menico, di Feluccio o di Giovannino?

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