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TEMPO

MASTRO FRANCESCO E LA COPPOLA

Mastro Francesco aveva una moglie e molti figli, faceva il calzolaio e lavorava in un bugigattolo. Era un poveraccio tutto lacero e stracciato, campava alla giornata, guadagnava e non guadagnava.

Nel suo campo di lavoro era rinomato e molto stimato, era un "cavallo di razza"(spezzatettorale), ma restava sempre un miserabile; i figli aumentavano di numero, le esigenze pure e lui, per sopravvivere, era costretto a fare debiti: non c'era negozio dove non ne avesse fatti. I creditori lo incalzavano, volevano essere pagati e lui rispondeva:

$1  Non vi preoccupate! Quando faccio i fatti miei, vi pago.

Visto che non riusciva a fronteggiare la situazione, un giorno disse alla moglie:

- Moglie mia, sai che ho pensato? Io mi fingo morto, mi metto in mezzo alla stanza nella bara (tavute) con i candelabri attorno e voi piangete.

Detto fatto: lui nella bara e la moglie e i figli tutti attorno a piangere.

- Marito mio!

- Papà! - urlavano in coro i figli.

Arrivarono i creditori e a vedere quella scena si commossero:

- Povero Mastro Francesco! - e, rivolti alla moglie:

- Io non voglio più niente!

- Io neanche! - Uno alla volta i creditori gli rimettevano i debiti.

Quella stessa mattina Mastro Francesco, prima di fingersi morto, aveva comprato anche una coppola, sempre a credito. Il creditore della coppola fu l'unico che non si commosse e non ebbe compassione; diceva tra sé:

- No, io gliela devo levare la coppola, è nuova nuova! Quando va al camposanto gliela levo.

Accompagnarono Mastro Francesco al camposanto e poi tutti se ne tornarono a casa, tutti tranne il negoziante della coppola, che aspettava il momento opportuno per riprendersela.

Mastro Francesco era ancora nella bara, e il creditore nascosto dietro una colonna, quando all'improvviso si sentì un rumore di cavalli che si avvicinavano al galoppo: erano i briganti che avevano fatto un bottino, avevano un sacco di marenghi e andavano nel camposanto per poterseli dividere in santa pace.

Ignari di Mastro Francesco, disteso nella bara, e del mercante, che intanto si era nascosto dietro una tomba, si divisero i marenghi, ma ne avanzarono tre.

Il capo dei briganti decise di assegnarli in questo modo:

- Là c'è il morto - disse - chi avrà il coraggio di andare a cecare gli occhi al morto avrà i tre marenghi.

Uno dei briganti, volendo dimostrare il suo coraggio, si alzò e si diresse verso la bara di Mastro Francesco. Questi, pronto, si mise ad urlare:

$1  Neanche i morti lasciate in pace adesso!

Tutti i briganti, a sentire il morto che parlava, se ne scapparono lasciando ogni cosa.

Mastro Francesco si alzò e si fregò le mani soddisfatto di questa fortuna insperata, ma dovette fare i conti col mercante, che, uscito dal suo nascondiglio, richiedeva la sua parte. E così cinque a te, cinque a me, cinque a te, cinque a me, il tesoro venne spartito equamente. Ma non era finita: il negoziante si trovava lì per la coppola e la pretese:

 - Ma come? Non ti bastano tutti i marenghi?

 - No! La coppola non l'hai pagata, perciò me la devi restituire!

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MASTRO COSIMO 

C’era una volta uno scarparo che lavorava dalla mattina alla sera; tacchi e mezze suole, altro non sapeva fare. Passava il resto del tempo nella cantina, addosso il solito grembiule.

Mastro Cosimo, questo era il suo nome, guadagnava solo tre-quattro lire al giorno e aveva quattro figli da sfamare. Nella cantina si trattenevano anche il custode del camposanto (cimitero) e i becchini.

Mastro Cosimo, seduto davanti al suo bicchierozzo, bagnava un pezzo di sedano e lentamente sorseggiava il quarto di vino, bagnava e beveva, pensieroso, cosa si poteva fare. La combriccola del camposanto, invece, s'abbuffava e compativa il povero mastro Cosimo, che inghiottiva a vuoto; quel giorno decisero di invitarlo al loro tavolo a mangiare una bracioletta (involtino).

  Vuoi assaggiare un boccone? - dissero quasi per scherno.

Mastro Cosimo, che era un ometto allegro, non si fece pregare due volte e in un boccone fece fuori la bracioletta.

  Bè, mastro Cosimo, come va?

  Eh, come deve andare, un paio di tacchi, una mezza suola… solo per levare i chiodini ci voglio le Sette Vergini e Maria…

  Tu hai paura dei morti? - interruppe un becchino.

  Dei morti? Dei vivi c'è da aver paura, non dei morti!

  Eppure, io sono convinto che te la fai sotto se vedi i morti - rintuzzò l'altro becchino.

  Io? Neanche per sogno!

  Allora facciamo una scommessa: vediamo se sei capace di restare una notte nella camera mortuaria.

  Nel camposanto? Eh, che ci vuole! Veramente proprio oggi è venuto un cliente che mi ha chiesto di risuolargli le scarpe, vuol dire che mi porterò il lavoro nella camera mortuaria.

  Va bene! E che ci giochiamo!

  No, non voglio niente di speciale: mi basta solo una mangiata di braciolette; voglio mangiare fino a quando non dico basta.

Presero appuntamento per la notte seguente al cimitero. Solo il custode del camposanto protestò, temendo che la paura potesse giocare un brutto scherzo a mastro Cosimo.

  Ma no! Di che ti preoccupi? - ribattevano gli altri - Noi ci nascondiamo dietro la porta e se vediamo che ha paura, apriamo. Ma poi non hai sentito come ci ha risposto? Lui è coraggioso!

Lo convinsero. Organizzarono il piano in questo modo: chiamarono un certo Saverio, un mezzo scemo (un "manicone"), che andava in giro vestito da pezzente, pieno di pidocchi e dormiva per la strada. Gli dissero: 

  Ti diamo dieci lire, in cambio tu non devi fare altro che stare nella bara, fingendoti morto e seguire le nostre istruzioni.

  Va bene, basta che mi pagate! - acconsentì Saverio.

Al camposanto, poco prima che arrivasse mastro Cosimo, i becchini tolsero l'ultimo cadavere arrivato e al suo posto sistemarono Saverio vestito da morto, con un po' di vernice ai lati della bocca e un batuffolo di ovatta in bocca; sulla bara appoggiarono il coperchio.

Quando arrivò mastro Cosimo, gli diedero le ultime raccomandazioni e lo chiusero nella camera mortuaria dov'era la bara. Il calzolaio sistemò il suo banchetto, accese il lume e si mise al lavoro.

Saverio, seguendo le istruzioni ricevute, sollevò un po' il coperchio. Mastro Cosimo si levò gli occhiali, guardò meglio e pensò:

  Mi sarò sbagliato! - e continuò a lavorare.

Di nuovo il coperchio si sollevò e si spostò. Mastro Cosimo, senza scomporsi si rivolse al morto:

  Ehi, se sei morto stai al posto tuo!

Gli altri dietro la porta, lo sentirono parlare e si misero sul chi va là e intanto se la ridevano.

Di nuovo si sollevò il coperchio e mastro Cosimo, spazientito, disse:

  Se sei morto stai al posto tuo; se sei vivo, io ho le carte, facciamoci una partita.

Quelli dietro la porta ridacchiavano.

Ancora una volta il finto morto sollevò il coperchio dalla bara e lo fece cadere a terra. 
Mastro Cosimo, esasperato, prese una forma di ferro e la scagliò contro Saverio, ammazzandolo. Gli altri, sentendo lo strano rumore, irruppero dentro, credendo di trovare mastro Cosimo svenuto a terra.

Fu così che mastro Cosimo vinse la scommessa.

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GALLI

I tre gallucci 

C’era una volta un padrone, don Luigi, proprietario di terreni e animali; lui abitava in paese e il curatolo si prendeva cura della sua terra.

Un giorno don Luigi disse al curatolo:

- Dai ordine a Michele, il garzone, di portarmi tre gallucci la prossima volta che viene al paese.

Il curatolo riferì l'ordine e Michele ubbidì. Prese tre gallucci, li legò, se li mise in spalla: due gli pendevano dietro, uno davanti e s'incamminò. I gallucci pesavano. Michele stanco ed affamato arrivò ad una taverna e pensò di fermarsi.

Si rivolse allo stalliere (il proprietario della taverna) dicendo: 

 -  Io ho fame, ma soldi non ne ho. Lo sai che facciamo? Prendiamo uno dei gallucci del mio padrone e ce lo mangiamo: a me basta una coscia, il resto te lo lascio…

-  Adesso lo uccidiamo e ce lo mangiamo tutto - rispose lo stalliere.

Così fecero. Il garzone, dopo che si fu ben ristorato e riposato, si rimise in cammino.

Arrivato a casa di don Luigi, con aria indifferente gli presentò i due gallucci. Il suo padrone, con grande sorpresa lo apostrofò:

-  Questi sono i gallucci che hai portato? Non dovevano essere tre?

-  Perché, questi quanti sono? Uno e due - contò Michele - non fanno tre?

Il padrone continuò a chiedere conto e ragione del terzo galluccio, ma Michele insistette nel suo tentativo di imbrogliarlo, fino a quando don Luigi decise di chiamare l'avvocato.

Ma il garzone ripeté anche davanti all'avvocato il suo ragionamento e non riuscivano a venire a capo della cosa.

Finalmente intervenne il figlio del padrone; questi mise in fila l'avvocato, don Luigi e il garzone, li contò: erano tre; poi prese i gallucci che aveva portato Michele e incominciò a distribuirli:

 - Uno all'avvocato, uno a don Luigi, e a te? - chiese Michele - Tu che cosa ti mangi?

- Eh! Ma io l'ho già mangiato! - rispose Michele.

 - Ah, brutto imbroglione! E volevi prendere in giro me!

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moglie

IL PAESE DOVE NON SI MORIVA MAI 

C’era una volta un calzolaio tanto povero che, con quello che guadagnava, non riusciva neanche a riempirsi la pancia.

Davanti alla sua bottega vedeva passare sempre carri funebri e commentava:

  Qua si muore sempre, oggi passa un funerale, domani un altro… se continua così non farò affari! Io devo trovare un paese dove non ci sono morti, dove non si vedono per le strade carri funebri.

Presa questa decisione s'incamminò e giunse in un paese vicino, dove carri funebri non se ne vedevano e cominciò a lavorare.

Tra i suoi clienti c'era una vecchietta che, vedendolo sempre tutto solo, un bel giorno gli disse:

  Ma possibile che tu pensi solo ad aggiustare scarpe? Perché non ti preoccupi di prendere moglie?

  Io non sono venuto in questo paese per sposarmi, ma solo per non vedere morti in giro! - rispose il calzolaio.

  Non preoccuparti, qui morti non ne vedrai mai. Perciò, che aspetti? Prenditi una donna e stai a posto.

Tanto insistette che lo convinse.

Il calzolaio prese in moglie una donna d'origine contadina. Ebbero un figlio e poi un secondo. Man mano che crescevano questi osservavano il padre dalla testa ai piedi: sembrava che soppesassero ogni grammo del suo corpo. Il calzolaio non riusciva a capire la ragione di tale comportamento, comunque si convinceva sempre più che in quel paese non si moriva e pensava tra sé: "Qui sto proprio bene! Era quello che cercavo!".

Un bel giorno la moglie si ammalò. Tutti i famigliari venivano spesso ad assisterla e avevano chiamato anche i medici migliori, ma senza ottenere nessun risultato.

Dopo che l'ebbero curata per diverso tempo, i genitori della donna fecero tra loro questa considerazione:

  È da tanto tempo che nostra figlia è ammalata e sta perdendo tutta la carne. Abbiamo mandato a chiamare i migliori medici, ma nessuno ci ha dato la cura giusta. Non c'è più niente da fare! È meglio che ce la mangiamo adesso, se no ci restano solo le ossa.

Tutti furono d'accordo, però dovevano fare tutto all'insaputa del marito, che non conosceva questa usanza.

Un giorno, mentre il calzolaio era fuori di casa, i parenti della donna decisero:

  Questo è il momento giusto! Adesso l'ammazziamo, le togliamo il cuore e la cuciniamo.

Detto fatto. Al suo posto nel letto misero una zucca con un fazzoletto legato attorno, per farla sembrare la testa della donna.

L'ammazzarono, la cucinarono e apparecchiarono la tavola come per una festa.

Quando il calzolaio tornò a casa, si meravigliò di tutto questo e chiese il motivo.

  Eh, abbiamo comprato un po' di carne e stiamo festeggiando. Perché, non sei contento?

  Sì, sì, va bene! Però voglio prima vedere mia moglie che fa -. Si affacciò dalla porta della camera e gli sembrò di vederla più colorita del solito, col suo fazzoletto in testa.

  Sta meglio - commentò - grazie a Dio sta meglio! -. E così, rasserenato anche lui si mise a tavola. Mangiarono, bevvero. Quando ebbero finito e si furono saziati, il suocero gli rivolse la parola:

  Cosa dici, come è andata la festa? Ti è piaciuta?

  Come no! - convenne il calzolaio - È andata così bene!

  Ah, e secondo te, da dove veniva tutta quella carne? Non ti sei mai chiesto perché non vedi in giro carri funebri? - ribatté il suocero. A sentire così il calzolaio s'insospettì, corse nella camera e vide che al posto della moglie c'era la zucca.

  E mia moglie che fine ha fatto? - chiese al suocero.

  E quello che hai mangiato prima cosa credi che fosse? - rispose l'altro e continuò: - Qui le persone ce le mangiamo prima che diventino pelle e ossa.

Il calzolaio si rese tristemente conto di aver scelto il paese sbagliato e decise immediatamente di andar via da quel posto. Prese con sé i due figli, ancora piccoli, e s'incamminò verso l'Adriatico.

A un certo punto, uno dei figli che era in braccio, cominciò a toccarlo e disse:

  Papà, che bel collo duro che hai, tutta carne! -. Anche l'altro fece la stessa considerazione e disse:

  Sai che facciamo, papà, la prima febbre che viene, senza aspettare che dimagrisci, ti mangiamo subito.

A sentire così, il calzolaio, figli o non figli, li prese e li buttò via, a mare.

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concerto

DONNA SE PRENDI ME 

C’era una volta una ragazza che si era invaghita di un giovane e voleva sposarlo. La madre non voleva, perché, diceva, era uno scansafatiche. Il giovinastro faceva alla ragazza una corte spietata e le cantava il solito ritornello:

Donna se prendi me

non sospirerai pane

ti faccio mettere i guanti alle mani

le mani di farina non ti faccio sporcare.

La ragazza tanto fece e tanto disse che convinse la madre a farle sposare il giovane.

Passarono i giorni e il giovane mostrò la sua vera natura: passava la giornata disteso a letto e si alzava solo per mangiare. La sera poi la passava in cantina con gli amici.

La madre della ragazza, vedendo la figlia pallida e dimagrita per le fatiche che affrontava, un bel giorno decise di affrontare apertamente il giovane e così gli disse:

Alzati di buona voglia e vai a lavorare

non mi far patire sta povera figlia

te l'ho data grassa come una quaglia

me l'hai fatta diventare come un filo

Avezete bona voglie e va travaglie

N' m'a facenne paté sta povera figlie

te l'agghij date grasse come e na quaglie

L'e fatte addeventà na ponte d'assuglie.

E l'altro rispose:

Essa lo sapeva chiaramente

Che io di fatica poco e niente so

Che io fatico il sabato e la domenica

E mi metto a tavolino col padrone

Esse u sapeve mizz e mane

K'ij fatighe poke e nninde sacce

K'ij fatighe u sabbete e a dumeneke

e me mette a tavuline ku padrune

 

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