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IL CONTADINO E IL DIAVOLO 

Si dice che un contadino l'abbia fatta anche al diavolo. Difatti una notte un contadino vide nel suo campo un diavoletto circondato da un cerchio di fuoco e, curioso, gli domandò:

- Oh folletto, che fai, custodisci il tesoro?

- Sì - rispose il diavolo.

- Ma il tesoro spetta a me perché è nel mio podere.

- No, perché l'ho scoperto io.

- Ma il tesoro spetta a me perché è nel mio podere.

- No, perché l'ho scoperto io.

Vennero a diverbio ed allora il folletto disse:

- Faremo così: per due anni mi darai metà raccolto e dopo ti cederò il tesoro. Il contadino accettò e si obbligò di dare al diavolo ciò che sarebbe nato sul terreno, la parte di sotto sarebbe rimasta a lui.

Il primo anno vi piantò patate e quando fu la raccolta, portò al diavolo le foglie mentre i tuberi restarono per lui. Il diavolo, indispettito, disse: - L'anno venturo preferisco avere la parte che resta nel terreno. - Ben volentieri! - disse il contadino.

Quell'anno vi seminò grano. Al momento della raccolta, quando il diavolo si vide presentare le radici senza il grano, pieno di livore, scappò maledicendo l'astuzia del contadino e gli dovette cedere anche il tesoro.

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VIVERE

Meglio un mal vivere che morire 

Abbandonato da tutti, viveva nella più squallida miseria un povero vecchio. Per isfamarsi era costretto a stendere la mano, ricevendo molte volte delle ripulse o accattando qualche tozzo di pane, elargizione di qualche ricco, prezzante della povertà altrui o borioso della sua nobiltà. Man mano che i giorni passavano, egli si sentiva venir meno le poche forze che gli rimanevano. Pensava con invidia a tanti ricchi che nuotano nell'opulenza, a tanti gaudenti della vita, a tanti che almeno sono robusti della persona e possono, col lavoro, procurarsi di che mangiare. Egli, invece, curvo sotto il peso degli anni e della miseria, era costretto a trascinare gli ultimi giorni della sua vita nella estrema indigenza ed in una lotta continua per isfamarsi.

Tra un sospiro e l'altro spesso esclamava:

- O morte, morte, perché non vieni a prendermi? Colpisci tanti giovani che, nel pieno vigore delle forze, potrebbero godersi la vita; stronchi i sogni di tante giovanette che vagheggiano un roseo avvenire in compagnia di qualche cuore innamorato; recidi i giorni di tanti fanciulli che, fiorellini olezzanti, profumano di sorrisi e di gaiezze tante famiglie, ghermisci tanti che potrebbero vivere comodamente tra le loro ricchezze e potrebbero fare tanto bene a sé ed alla società, e la mia povera esistenza non la puoi sopprimere? Ma la morte non si presentava: era sorda alle sue querele.

Un giorno di aprile, il bel tempo, la fresca aura e il profumo della campagna invitarono il vecchio a fare una passeggiata pei campi. Recitava qualche orazione, ed il cinguettio degli uccelli gli metteva grande allegrezza nell'animo.

Qualche ragazzo discolo non mancava di lanciargli delle parole offensive o forse anche qualche pietra: i vecchi amici lo confortavano con qualche parola, gli ricordavano i bei tempi passati: i contadini facevano qualche prognostico sulla raccolta, altri parlavano della miseria crescente, altri, lavorando la terra che usciva nera e fumante sotto i colpi della zappa, gli parlavano della speranza che nutrivano per il loro campicello; si fermava con donne che, col cercine in testa, tornando dalla campagna, sostenevano qualche paniere pieno di ortaggi: ammirava l'efflorescenza delle varie piante da cui emanava un effluvio paradisiaco.

Egli, curvo sul suo bastone, andava sempre avanti, raccogliendo i fuscelli che incontrava qua e là per terra, legandoli con un vinciglio.

Quando fu stanco, riposò alquanto, e caricatosi della fascina, pian pianino si trascinava a casa, borbottando e lanciando qualche maledizione alla sua miseria.

Ad un certo punto, sentì il bisogno di riposarsi un poco e, adocchiato un muricciolo abbastanza alto, si avvicinò e posò sopra il suo fardello. Diede un'occhiata intorno e, vistosi solo, gli venne dal profondo dell'anima questa imprecazione:

- Maledetta morte, e quando mi verrai a trovare?

Non l'avesse mai detto: immantinente si vede davanti uno scheletro gigantesco con la falce in mano che gli domanda:

- Che vuoi? Più volte mi hai chiamato ed io non mi son fatta vedere, ma questa volta sono a tua disposizione. Dimmi che desideri?

Il vecchio la squadra dall'alto in basso, vede quanto è orrida e brutta: un senso di spavento lo pervade: vuole balbettare qualche cosa, ma non riesce: desidera fuggire, ma le forze gli mancano. Allora con voce supplichevole le dice:

- Grazie della tua venuta, ti avevo chiamato soltanto perché mi aiutassi a riporre sulle spalle la fascina.

(? Proverbio: Meglio un mal vivere che morire.)

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LAMP

SULL'INGANNATOR CASCA L'INGANNO 

In una remota casetta, presso un celebre Santuario, viveva nella sua solitudine un eremita. Sorgeva il Santuario a cavaliere di una collina in mezzo ad uno sterminato bosco. L'eremita riceveva di tanto in tanto la visita di qualche nobile cacciatore o di qualche viandante che si sperdeva nel bosco. Spesso saliva sulla cupoletta della Chiesa e davanti a lui si stendeva un immenso e meraviglioso panorama. L'occhio godeva alla vista della rigogliosa natura che lo circondava: piante gigantesche o di corto fusto; sempre verdi alcune, altre brulle d'inverno, e spingendo lo sguardo più giù per la collina, lontano lontano, vedeva le guglie dei campanili e i caseggiati sparsi a piè della collina. Unico suo conforto era il cinguettio allegro degli uccelli, la bellezza del cielo azzurro o la notte tempestata di punti luminosi, di stelle che occhieggiavano nel firmamento. Nella sua solitudine la preghiera pura si elevava al cielo ed il suo spirito, nell'intima unione con Dio, sentiva una dolcezza che intender non la può chi non la prova.

Si nutriva di ciò che la natura largamente gli offriva o della elemosina di qualche viandante. Una volta al mese scendeva giù nei paesi per bussare alla porta di qualche devoto della Madonna, per procurarsi del pane e dell'olio per alimentare la lampada alla Madonna. Moltissime famiglie si erano anche abbonate, in forza di qualche voto, sicché l'eremita era sicuro di non tornare mai a mani vuote al Santuario.

Fra le diverse famiglie che menavano vanto della carità verso la Madonna, vi era una contessa, vedova di un conte che un tempo era stato il dominatore ed il terrore del contado. Passava la sua triste vedovanza in compagnia di un figliolo ventenne, Gigi, che formava tutta la sua consolazione. E giustamente formava la unica gioia della mamma, perché Gigi, oltre ad essere figlio unico, era dotato di tali virtù, da essere stimato, da tutta la popolazione, come il tipo del perfetto gentiluomo. La vedova, quando vedeva l'eremita, lo ospitava come un vecchio e caro amico di famiglia, gli prodigava ogni cortesia e decantava sempre la sua immensa devozione alla Madonna. E' inutil dire che l'eremita non bussava mai inutilmente a quella casa dove anzi le sue bisacce venivano ripiene d'ogni bel di Dio.

In realtà però ciò che la contessa faceva, non era corrispondente ai suoi intimi sentimenti. Si mostrava larga più per affettazione, che per un vero atto di omaggio alla Madonna ed all'eremita: era una pura ostentazione di carità più che uno slancio del cuore verso il povero. Le mancava perciò il fondamento della bontà nell'atto materiale che compiva e, mentre in apparenza si mostrava lieta della visita dell'eremita, in cuor suo malediceva il momento in cui lo conobbe la prima volta, si stizziva ogni volta che lo vedeva e dopo poco tempo pensò anche di perderlo.

Una volta, avvicinandosi il giorno in cui doveva ritornare l'eremita, pensò di preparargli una magnifica 'schiacciata, impastandola con abbondante veleno.

- Almeno così, - diceva, - finirà di recarmi noia ogni mese.

Difatti, un giorno, alla prima ora del mattino, l'eremita era dietro la porta. La cameriera annunziò la sua visita alla contessa la quale si preparò a riceverlo con maggiore cortesia del solito.

- Venga, venga, signor Antonio, non vedevo il momento di salutarla - disse la contessa.

- Sia lodato Gesù Cristo e la Madonna - rispose l'eremita.

- Ebbene come va la questua?

- A meraviglia, contessa; la bontà del Signore non mi fa mancare mai nulla. - Ed il Santuario vien frequentato?

- Non molto, signora: ma questa scarsezza si deve più alla lontananza del caseggiato che a cattiva volontà.

- Sicché le elemosine sono scarse?

- Colà sì, ma quando scendo nel paese nessuno mi nega la carità e perciò nulla mi manca, anzi tante volte condivido il mio pasto coi visitatori.

- Bene, bene, anche io oggi le voglio fare una bella sorpresa.

- Una sorpresa?

- Sì, ho fatto preparare per lei una bella focaccia e la mangerà alla mia salute ed a quella del mio figliolo.

- Grazie, grazie signora, sempre buona; conosco a fondo il suo buon cuore e la sua illimitata carità. Iddio le saprà rendere merito.

- Che grazie e grazie: per la Madonna e per il suo servo si fa ben volentieri qualsiasi sacrificio. E poi sa che delle sostanze ne ho molte e perciò è ben trascurabile questa mia offerta.

- La Madonna manderà su lei e sul suo figliuolo le più elette benedizioni. E Gigi come sta?

- E' un fiore che cresce di giorno in giorno e spande intorno a se i profumi della sua bontà. Se lo vedesse! E' vero che il Signore mi ha privato del marito, ma in compenso ha profuso in lui ogni tesoro di bellezza e di virtù, sicché veramente forma il mio gaudio e il mio tutto.

- Il Signore lo voglia proteggere da ogni pericolo e gli voglia dare lunga vita, per formare la gemma della sua vecchiaia.

- Possa la Madonna ascoltare il suo buon augurio!

Antonio, ricevuta la focaccia, l'olio ed altri doni, dopo qualche altra visitina ai devoti, ritornò bel bello al suo eremo, ringraziando in cuor suo Dio di tante elargizioni e soprattutto era colpito della speciale attenzione della contessa. Non volle subito mangiare la focaccia: essendo il dono più gradito, la volle conservare per l'ultimo boccone.

L'indomani, a vespero, un furibondo temporale scoppiò sulla collina. Un vento tempestoso, foriero di bufera, cominciò a soffiare. Poco dopo un lampo cominciò a serpeggiare e subito dopo si udirono terribili fragori di tuoni che percorrevano da una parte all'altra la volta celeste. Cominciarono a cadere grossi goccioloni e poi acqua a catinelle frammista a grandine. Le cime degli alberi venivano scosse fortemente, mentre le chiome, agitate dal vento impetuoso e sotto lo scroscio della pioggia continua, producevano un terribile e sinistro sibilo nel bosco. Sembrava il finimondo.

L'eremita, in mezzo a tanto disordine della natura, genuflesso davanti al quadro della Madonna, pregava ed implorava con immenso fervore, perché cessasse presto quell'uragano. Era del tutto assorto nella preghiera, quando sentì fortemente bussare alla porta. Pensò: - Sarà qualche cacciatore sorpreso dalla bufera! - Si affrettò ad aprire l'uscio. Non si era ingannato: un giovane cacciatore dal cappello a larghe falde, con gli abiti ed i gambali infangati, domandò asilo. Con grande sorpresa l'eremita riconobbe nel cacciatore il figlio della contessa.

- Gigi, Gigi, lei qui?

- Come vede, caro Antonio. Approfittando del bel tempo, questa mattina avevo deciso di andare a caccia e sul più bello sono stato colto dalla bufera. - Come è malconcio! Ma adesso rimedieremo a tutto. Perdonerà se la mia casupola non le può offrire le comodità del suo palazzo. Intanto si tolga i panni bagnati ed io li metterò ad asciugare al fuoco. Sa, signorino deve contentarsi della mia miseria.

- Ma quello che è peggio si è che sono ancora digiuno.

- Neanche in questo le mancherà la Provvidenza divina. Anzi proprio ieri stetti dalla signora contessa, la quale, bontà sua, mi offrì una bella schiacciata. Oh grandezza di Dio! e dire che, proprio il figlio della mia signora, deve per primo mangiare un dono così gradito.

- Lo so, lo so, ieri la mamma mi ha parlato con piacere della sua visita. - Ed ora vede, non volendo, lei mangerà del pane della carità di sua madre. Gigi aveva tanta fame e tanta stanchezza, che non volle neppure attendere che Antonio preparasse un po' di minestra e, con grande avidità, cominciò a sgranare la focaccia della mamma. E tanto più la gustava, in quanto che mangiava roba preparata in casa e per una circostanza così speciale.

Quando ebbe dato un primo sfogo alla fame, con calma incominciò ad aiutare Antonio che si affrettava ad asciugare i panni e preparare una minestra.

Ma non era passata neppure mezz'ora che Gigi cominciò a sentire dei forti dolori allo stomaco: cominciò a sudar freddo, avvertì una spossatezza generale, mentre le forze lo abbandonavano del tutto.

Antonio gli offrì un poco di laudano e qualche altro calmante: ma i dolori crescevano e poco dopo Gigi, fra spasimi indicibili, si irrigidì. Antonio, forsennato, correva di qua e di là: ma ogni suo sforzo riuscì vano. Quando si vide in casa il cadavere di Gigi, si affrettò a scendere in paese e corse ansante alla casa della contessa. Ebbe appena la forza di bussare alla porta e, quando comparve la signora, fra lagrime e singulti disse: - Signora, Signora, una grande sventura!

La contessa, che quasi presagiva la fine dell'eremita, gongolava di gioia, ma affettando grande mestizia, domandò:

- E che, Antonio, si sente male?

- Contessa, una sciagura immensa ci ha colpiti.

- Ma mi dica, Antonio, quale sventura l'ha colpita?

- La più tremenda, la più dura delle sventure. Il suo Gigi è spirato in casa mia.

- Come, come, il mio Gigi?

- Sì, colto dall'uragano, si è rifugiato nell'eremo.

- E gli ha dato da mangiare la mia focaccia?

- Sì, e lui con avidità l'ha mangiata, sapendola un dono della madre. - Ah! sciagurata me, la giustizia di Dio mi ha colpita!

E in così dire cadde svenuta per terra.

Ancora oggi, sul mausoleo eretto al figlio nel cimitero del paese, su una elegantissima lapide, si legge inciso quest'epitaffio:

LA PERFIDIA DELLA MADRE, PERDETTE L'UNICO FIGLIO

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piante

La ricchezza del lavoro 

La vecchiaia era di peso all'ottuagenario barone De Lucreziis, tanto più che con la perdita delle forze, parecchi acciacchi si erano presentati. Del resto, la stessa vecchiaia gli era una malattia. Trascorreva gran parte della giornata leggiucchiando o piuttosto facendosi leggere qualche libro o il giornale. Altre volte si trascinava col bastone nel suo giardino pensile per respirare un poco d'aria pura. Viveva nel triste ricordo di una vita passata in sollazzi e piaceri, in continui viaggi e godimenti leciti ed illeciti, fra il rispetto di quanti lo conoscevano ed il timore di quanti lo servivano.

Nella sua pinacoteca, il più delle volte, lo sguardo si fissava sui quadri dei suoi antenati, uomini illustri che si erano imposti alla comunità o si erano resi emeriti nelle arti e nelle scienze; grandi letterati che avevano fatto sfoggio della loro cultura sulle cattedre, o famosi oratori che avevano fatto tremare con la loro eloquenza le aule dei tribunali. E si compiaceva nell'ammirare tanta grandezza nella sua famiglia, ma poi pensava: Eppure tante celebrità sono scomparse, forse sta per scoccare la mia ora!

Ed allora quel senso di compiacenza lo abbandonava, ed un velo di tristezza cadeva sul suo cuore ed egli cercava distrarsi subito per vincere quella pesantezza di animo: chiamava qualcuno di famiglia o qualche amico per fare una partita a scacchi, dove volentieri trascorreva qualche ora; o, se erano in più, giuocavano a briscola o al preferito tressette, giuoco degli intellettuali, tanto per ingannare il tempo. Non mancava il fiaschetto di vino, fra partita e partita, tanto per mantenersi allegri e dimenticare la triste ora fuggente. Non rare volte si lasciava circondare dalle più nobili famiglie del paese che si gloriavano della sua amicizia e passavano le ore chiacchierando e ricordando qualche episodio antico, o parlando della politica contemporanea.

Dopo parecchie giornate piovigginose e umide, finalmente uscì il bel tempo.

Si era in novembre: il barone non era uscito da parecchio e, spinto dalla freschezza di una giornata soleggiata, sentì la voluttà di fare una passeggiata. Chiamò il suo fido cameriere e gli domandò:

- Vincenzo, il cocchiere è in casa?

- Sì, signor barone, lo vuole?

- Va a dirgli che attacchi il cavallo al biroccino, perché desidero fare una gita.

Dopo mezz'ora il ronzino scalpicciava davanti alla casa del barone, il quale non tardò a montare sul calessino. Uscito dalla città presero per la via di campagna. La strada solatia risaliva dolcemente verso un'ubertosa collina. Man mano che avanzavano, il barone si sentiva rinascere, respirava a larghi polmoni, mentre l'occhio si spaziava nell'immenso azzurro. Per meglio contemplare il panorama fece abbassare il soffietto del calesse.

Guardava a destra ed a manca e la vista di una grande attività di vita lo commoveva.

Mentre gli alberi rendevano alla terra le loro foglie ingiallite o appassite, la foglia della vite perdeva il suo verde cupo e si copriva di molte tinte: il contadino con la zappa squarciava la terra che usciva nera e fumante, piena di alito e di vita. Altri, curvi sulla stiva dell'aratro, aprivano dei solchi, mentre le femminette gettavano fra le porche le sementi. E così, mentre la natura si spogliava del vecchiume, l'attività dell'uomo preparava il terreno per farlo rinascere ad una vita novella e più ubertosa. Altri mondavano il mandorlo per spogliarlo del superfluo, alcuni raccoglievano le olive cascate per terra, o estirpavano qualche erbetta per darla in cibo alla pecora o ad altre bestiole. Il paziente asino girava il bindolo nei verzieri per attingere acqua ed innaffiare gli ortaggi.

Il barone ammirava tanto rigoglio di vita e si compiaceva nel vedere come l'umanità lavora e suda per guadagnarsi un tozzo di pane. Rendeva più gaia la sua gita il dolce ritmo di un ruscello che limpido scorreva da cucuzzolo della collina e scendeva come una verga d'argento attraverso la campagna. Il passerotto saltellava di frasca in frasca, la cinciallegra cinguettava mentre i colombi tubavano, il merlo chiocciolava, i tordi zirlavano, qualche pappagallo squittiva e la gazza dai riflessi metallici, andava trafugando oggetti brillanti. Il latrare del cane lo disturbava, mentre il nitrito di qualche puledro, che saltellava attraverso i campi, richiamava il suo sguardo. Né meno richiamavano la sua attenzione greggi di pecore o qualche mandria di buoi pascenti lungo il pendio della collina. Ed elevava il pensiero a Dio perché gli sembrava che tutta la Natura cantava le bellezze del Creatore. Mentre era assorto nella contemplazione di questo spettacolo imponente ed attraente, il suo sguardo si posò su di un contadino che stava aprendo una fossa. Quando gli fu vicino, per il desiderio di scambiare qualche parola con un uomo semplice di campagna e la curiosità di sapere cosa facesse, fece fermare il biroccino e con aria di bontà domandò:

- Che fai, buon uomo?

- Oh!, signor barone illustrissimo - rispose il contadino togliendosi subito il berretto - sto facendo una fossa.

- E che vi pianterai?

- Mi hanno donato un alberello di fico primitivo, ed ho pensato di trapiantarlo qui.

- Ci vorrà del tempo per portare il frutto, è piccolo abbastanza!

- Il fico cresce presto; è questione di cinque o sei anni. Pazienza ci vuole, signor barone, ma ogni tempo arriva. Se anche non dovessi gustare io il frutto, ci sono i miei rampolli. Del resto che il Signore mi faccia vivere e star bene.

- Eppure vorrei gustare il primo frutto di codesto albero!

- Se Dio ci darà vita, le prometto che le primizie saranno per lei. Il barone lo ringraziò e riprese il cammino. Verso mezzodì fece ritorno contemplando dall'alto l'immensa distesa delle acque del mare che, sotto i raggi del sole e mosso lievemente da una leggera brezza, sembrava un grande cumulo di lucenti cristalli. Alle volte si fermava a guardare le opunzie che col bel frutto d'oro arricchivano qualche parete. Spesso qualche paltoniere, al suo passaggio, si fermava, si toglieva il cappello e lo guardava con occhi pietosi per avere la elemosina; dei fanciulli facevano chiasso giocando con le trottole che, gettate con violenza a terra dalle lunghe ferze, giravano su se stesse per parecchi secondi. A brevi intervalli udiva il colpo di qualche fucilata, fatta partire da pazienti cacciatori; e stormi di uccelli fuggivano davanti al pericolo per cadere poi vittime di qualche insidia, fra cappi nascosti in qualche macchia e attirati dalle voci insidiose dei canterini. Intanto, ritornando verso casa, pensava:

- E potrò vedere io il frutto di quell'albero? Altri cinque anni, ha detto quel contadino: chi potrà vivere ancora tanto tempo?

* * *

Dopo sei anni un uomo attempato bussava alla porta del barone. Comparve il cameriere e gli domandò:

- Che cosa desiderate?

- Voglio parlare col signor barone.

- Il barone è ammalato e non riceve nessuno.

- Ho bisogno assoluto di parlargli.

- Ma qual bisogno vi spinge?

- Son venuto a regalargli questo piccolo corbello di fichi: sono le primizie di un mio albero.

- I fiori di fico al signor barone? Ma siete pazzo?

- No, che non sono pazzo; ditegli che sono io, il contadino Michele Guerra. - Ma che guerra e non guerra, il barone è tanto in guerra con le malattie: figuratevi se può stare ad apprezzare i vostri fichi! E poi manca di cotesta roba al signor barone? Ne distribuisce a tutto il paese!

- Vi costa niente annunziarmi? Se ho un rifiuto, l'offesa sarà fatta a me. - Temo che saremo presi entrambi per pazzi.

Il barone, dal pianerottolo, aveva sentito questo dialogo e invitò il cameriere a lasciar passare il contadino il quale, appena fu alla sua presenza, disse:

- Vengo, signor barone, per soddisfare un suo desiderio e adempiere ad una mia promessa. Veramente sarei venuto l'anno scorso, ma l'albero non mi produsse che un solo fior di fico. Mi sembrava poco corretto presentarmi con uno solo. Quest'anno che l'albero ne ha portato di più, ho voluto mantenere la promessa che le feci sei anni fa quando stavo trapiantando l'albero e lei, dal biroccino mostrò il desiderio di vedere il frutto di quest'albero.

Due lucciconi imperlarono le gote del barone.

Sei anni erano passati da quella passeggiata. Erano lagrime di commozione e di emozione. Non sperava di vedere il frutto di quell'albero ed ora lo vedeva. Ammirava la bontà di quel contadino che sacrificava per lui le primizie di un albero e ne privava anche la moglie e i figli. Gradì immensamente il dono, chiamò il cameriere e gli disse:

- Va, deposita i fior di fico e riportami il corbello.

Quando il cameriere ritornò, il barone prese il corbello vuoto e lo riempì di marenghi d'oro dicendo:

- Signor Guerra, torna a casa e con questi marenghi potrai vivere a lungo, contento e felice con tutta la famiglia.

Il cameriere restò sbalordito per tanta generosità del signor barone; non sapeva spiegarsi tanta longanimità per pochi fiori di fico; né meno commosso fu il contadino il quale si vedeva di punto in bianco cambiar fortuna. Tornò a casa che quasi non si contentava più per l'allegrezza e, appena scorse la moglie e i figli, abbracciandoli reiteratamente con effusione gridò: - La Provvidenza è grande: vedete quante monete d'oro!

In così dire gettò sul tavolo tutti quei marenghi. Al luccichio di tant'oro moglie e figli sgranavano gli occhi, né sapevano d'onde fosse piovuta loro tanta ricchezza. Michele spiegò l'enigma e tutti s'inginocchiarono davanti a un quadro della Madonna per ringraziarla di quel ben di Dio, specialmente in quell'anno di crisi.

Dopo poco la condizione sociale di Michele si cambiava del tutto.

Non più abitava in una modesta casetta, ma aveva comprato un bel palazzo: non più andava in campagna con un asino ed un rozzo basto, ma con un plaustro nuovo ed un bel cavallo bardato con finimenti elegantissimi. Comprò altre terre e non più lavorava da solo, né lo si vedeva in piazza in attesa di chi lo conducesse e lo occupasse in qualche lavoro, ma egli si recava in piazza per dare lavoro ad altri operai e li conduceva ai suoi fondi: da semplice contadino era divenuto un ricco proprietario.

Questo cambiamento repentino, si sa, diede ai nervi a molte persone, delle quali alcune gliela mandavano buona, altre accennavano a qualche tesoro trovato, qualcuna a qualche eredità di chi sa quale lontano parente, e non mancò anche chi lanciò l'idea che quella moneta l'avesse sgraffignata a qualche malcapitato.

C'era un suo vicino che si struggeva dalla rabbia per i continui progressi che faceva Michele e si propose di sapere ad ogni costo come aveva fatto tanta fortuna. Ed un giorno di domenica, mentre erano in piazza, gli cece intendere che aveva in casa dell'ottimo vino, insuperabile per bontà e gradazione e lo invitò a volerne fare un assaggio. Michele accettò volentieri l'invito e insieme andarono alla casa di Giovanni. Questi, dopo avergli fatto mangiare del formaggio, dei fichi secchi e delle noci, aprì la ribalta e per una botola scese in cantina, tolse dalla cannella lo zipolo e ne spicciò un orcio di olente e frizzante vin nero: lo offrì a Michele e brindarono alla comune salute.

Poi, di discorso in discorso, si sa che a Roma si va per molte vie, dopo aver parlato della crisi che imperversava, dei prezzi del raccolto che diminuivano, del grave peso della fondiaria, dei coltivi che non si potevano fare a dovere nella campagna e di qualche previsione sul futuro raccolto, conchiuse:

- Anzi, mi fa meraviglia che proprio in quest'anno maledetto, stai facendo tante spese. Sembra strano che mentre tutti si limitano nello spendere, tu fai uno sperpero continuo.

- Eh, caro Giovanni, il mio è un caso singolare. Certo che con quel po' che possedevo, non potevo neppure sostentare la mia famiglia.

- E a che cosa devi tutta la tua fortuna?

- Te lo dico subito: ebbi in cambio di fichi tanti marenghi dal signor barone. - Come, come, dal signor barone?

- Sì, dal signor barone che, gradendo alcuni fichi primitivi che gli portai, in ricambio mi riempì il corbello di marenghi.

- Fortunato te, potesse capitare anche a me una simile fortuna!

- La conversazione dopo andò sempre più raffreddandosi e Michele, augurato la buona notte a Giovanni ed alla famiglia, rincasò.

Intanto Giovanni perdette la sua tranquillità. Per pochi fichi Michele si era arricchito, perché non si potrebbe arricchire anch'egli che aveva tanti alberi della più bella e svariata qualità di fichi? E giorno e notte non faceva altro che fabbricare castelli in aria: erano continui soliloqui. Venne la primavera: ogni mattina si recava in campagna per visitare le gemme e seguiva il lento crescere del frutto di fico. Sospirava quel giorno beato quando si sarebbe presentato davanti al barone. - Questi, pensava, mi conosce: certamente accoglierà con maggiore cortesia me che quel tanghero di Michele, vero bifolco, nato e cresciuto fra la terra, analfabeta perfetto: non sa vergare neppure la sua firma! E poi la qualità dei miei fichi è insuperabile: quelli di Michele non hanno nulla da vedere con i miei. Mi figuro come resterà contento il signor barone!

E di pensiero in pensiero ruminava nella mente il modo come presentarsi, la toeletta da premettere: un fare sommesso, inchini profondi. E già si vedeva alla presenza del barone, il quale con sorriso bonario accettava non un piccolo corbello di fichi, ma un grosso paniere. Ed eccolo ordinare al cameriere di riempire il paniere di marenghi. Uh quant'oro! Il cuore gli sussultava davvero ed avvertiva un fremito per tutta la persona. Corre a casa dalla moglie e dai figli. Mogliettina mia, figli miei carissimi, la nostra fortuna è al colmo! Con quella moneta compra un palazzo signorile e un frantoio con macchine moderne. La fortuna lo aiuta sempre più. Si mette in commercio, si fa straricco. I figli non più in campagna ma li manda agli studi, ed eccoli tutti professionisti: chi ingegnere, chi dottore, chi giurista, chi letterato. Ecco sollevato il casato e cominciare una nuova generazione. Fattosi ricco, bisognava pensare agli onori. Ed ecco che per mezzo di intrighi e di soldi vien nominato cavaliere della Corona d'Italia, poi Ufficiale, poi Commendatore e poi... perché no? anche cugino del Re ottenendo il Collare dell'Annunziata. Ed ecco tutti prostrarsi ai suoi cenni: Signor commendatore di qua, signor commendatore di là. Ed egli ad elargire sorrisi benevoli a destra ed a sinistra...

Ma il duro era che quando si richiamava alla realtà, si ritrovava sempre uno straccione e tutti i sogni cadevano.

Finalmente il giugno si avvicinava: i fichi, avuta a tempo la pioggia salutare, crescevano di giorno in giorno. Nello stesso tempo crescevano anche delle magnifiche pere.

Giovanni era in forse se portare al barone i fichi o le pere. Belli gli uni, più belle le altre. Ed anche questo era per il pover'uomo un vero tormento, ma poi conchiuse: - No, Michele ha fatto la sua fortuna con i fichi, anch'io potrò riuscirvi con i fioroni.

Spiava sempre i passi di Michele, temendo che lo prevenisse, e, non appena poté riempire due grosse sporte di fioroni, rivestì il suo asino di una sporca gualdrappa tanto per nascondere i molteplici guidaleschi di cui era ricca la sua bestia, vi sovrappose il basto, caricò su le sporte e, col cuore gongolante di gioia, si avviò verso la casa del barone. Pensava: - Se mi empirà le sporte di marenghi, Michele creperà di bile!

Compiacendosi di questo tiro fatto al rivale, e facendo molti soliloqui, giunse al palazzo del barone. Bussò, si presentò il portinaio che gli domandò che cosa desiderasse.

- Vorrei parlare col signor barone - disse Giovanni con una certa timidezza. - Ma che cosa volete?

- Donargli questi fichi.

- Oh, forse il signor barone ha bisogno dei vostri fiori di fichi? - Ma questi sono i primi di quest'anno: vedete che bella qualità!

- Credete davvero che il barone non ne abbia dei migliori?

Mentre si svolgeva questo animato dialogo, il barone usciva sul giardino pensile per fare la sua consueta passeggiata e sentì il suo portinaio alle prese con quel contadino. Si affacciò ed ordinò che lo facesse entrare. Quando Giovanni fu su con i fichi fiori, il barone domandò:

- Che cosa è codesta roba?

- Sono fioroni che vengo a regalare a Vossignoria.

- A me? E chi vi dà tanta libertà? Non sapete che il barone De Lucreziis butta via un mondo di quella roba?

- Io glielo ho già detto - soggiunse il cameriere - ma egli ha tenuto duro. - Ma, signor barone - riprese Giovanni - veda come sono belli, sono le primizie di quest'anno! - E non sapeva balbettare altro.

- Vi ho detto che non so che farne dei vostri fichi e, giacché avete avuto la baldanza d'insultarmi a codesto modo, ne subirete il fio.

Chiamato a sé un giovane robusto, gli disse:

- Vincenzo, do a te il compito di risarcire il mio onore e punire la tracotanza di codesto contadino. Conduci quest'uomo nella corte, legalo alla campanella e scagliagli contro tutti i suoi fichi.

Giovanni voleva reagire, parlare, supplicare, ma non ebbe la forza e la possibilità, e la volontà del barone fu eseguita appuntino.

Come i fichi venivano lanciati contro la testa o le spalle o le gambe di Giovanni, si aprivano a guisa di grossi razzi multicolori nei fuochi artificiali e la corte sembrava un cielo stellato.

Quando fu compiuto quello scempio, Giovanni, così malconcio, dovette risalire sul basto e tornarsene a casa con le ceste vuote.

La moglie intanto era impaziente e di tanto in tanto faceva capolino all'uscio, per vedere se tornava il suo uomo con l'asino. Finalmente, dopo tanto attendere, se lo vide tornare così pulito. Ebbe appena il tempo di domandargli: - Ebbene, com'è andata? - che Giovanni, vinto dalla vergogna e dalla stizza, cacciò l'asino nella stalla, prese il basto con le ceste e gettò tutto per terra dicendo:

- Maledetto il momento in cui mi venne la velleità di divenire ricco a spese di altri: la vera ricchezza sta nel lavoro, per noi non c'è altra fortuna. Il signor barone, come ha visto i fioroni, ha ordinato ai servi di scagliarmeli tutti contro. E meno male che ho avuto giudizio a portargli i fichi fiori, che sono morbidi: se gli avessi portato le pere, che sono durissime, a quest'ora, cara Maria, mi avresti pianto per morto, tanta era la violenza con cui me li lanciavano!

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CHIES

UOMINI SENZA PENSIERO

Un re con tutto il suo seguito andava girando per il suo vasto regno e si fermò in un convento, dove c'erano dei monaci.

Il re domandò:

- Come passate la vita?

Risposero i monaci:

- Viviamo senza nessuna preoccupazione, senza alcun pensiero.

- Male, malissimo - aggiunse il re, - nel mio regno tutti i sudditi devono lavorare di mente o di braccia: tra una settimana passerò di qui e mi risponderete a queste tre domande:

- prima, quanto vale la persona del re;

- seconda, quanto pesa la luna;

- terza, quanto ci vuole a cambiare vita.

Se non sarete capaci di rispondere bene e presto, sarete tutti ammazzati prima di domenica.

Il capo dei monaci passò il primo giorno in meditazione.

Il secondo giorno furono chiamati a rispondere ai varii quesiti tutti i monaci; nessuno, però, riusciva a dare delle risposte esaurienti.

I giorni passavano e la morte s'avvicinava terribile per tutti. Il capo non sapeva proprio come fare e che pesci pigliare; non si era mai trovato in vita sua in simili scabrose circostanze.

Il sabato mattina si presentò all'abate un picozzo (vedi nota)  e disse:

- Non vi preoccupate, risponderò io per tutti!

L'abate lo cacciò in malo modo:

- Ma te ne vuoi andare, pezzo di scemo; è tempo di scherzare questo? E' in pericolo la vita di tutti i monaci!

Il picozzo insisté:

- Fatemi fare l'abate; voi l'avete fatto per tanti anni. Fatelo fare a me solo per un quarto d'ora...

L'abate non gli dette ascolto.

La notte non dormì nessuno ad eccezione del picozzo, che la mattina era allegro e sereno, mentre tutti gli altri avevano la tremarella e l'abate si dette ammalato.

Si sentì picchiare alla porta. Immediatamente il picozzo indossò di nascosto gli abiti dell'abate e si fece avanti ad aprire la porta. - Entrate - disse avvolto in un'ampia cocolla (vedi nota), - tutte le vostre domande troveranno la più dotta e la più saggia delle risposte.

Con tutta la solennità il primo ministro si fece avanti e lesse da un librone tirato da quattro buoi, il quale poteva pesare un tre quintali: - Quanto vale la persona del re?

Il picozzo calmo senza scomporsi rispose:

- Gesù Cristo era padrone del cielo e della terra, poteva comandare le forze del bene e del male e quando lo tradirono lo valutarono 30 denari. Tu che sei un re, padrone di una parte di questa terra, pur usando la buona misura, varrai per eccesso 17 denari.

- Bene, benissimo. La risposta è stata ragionata e risponde alla verità! Andiamo ora alla seconda: quanto pesa la luna?

- Non penso di sbagliarmi, se ragiono come tutti gli uomini della terra. La luna si mostra sempre a quattro quarti e dopo quattro quarti, ricomincia di nuovo la sua strada nel cielo: perciò quattro quarti fanno un intero: quindi la luna pesa esattamente un chilo. E se non ci credete andate a misurarla.

- La risposta è stata ben ragionata e si ritiene giusta. Andiamo adesso alla terza ed ultima domanda, dalla quale dipenderà la vita e la morte di tutti voi. Quanto ci vuole per cambiare vita?

- Ah, ah, ah, questa è la più semplice di tutte. Si può cambiare vita in un attimo. Vi dò la dimostrazione: due minuti fa io ero picozzo ed ora, poiché non sapeva rispondere nessuno alle vostre domande, ho cambiato abito e sono diventato abate e per questo in un batter d'occhio è possibile cambiar condizione di vita.

- Voglio vedere chi era l'abate fino a ieri, - chiese il re irato.

- Sta a letto per la febbre della tremarella.

- Malato o morto lo voglio alla mia presenza.

Gli fu portato l'abate, mezzo morto per la paura di essere ucciso. Il re lo guardò fisso negli occhi e disse:

- Ah così è... così si fa il capo, abbandonando tutti nell'ora del pericolo? Non punisco nessuno per il merito e l'ingegno di quest'uomo; ma ai vili ci vuole una lezione che devono ricordare per tutta la vita. Da questo momento tu, giovane dal pronto ingegno, diventerai abate e tu, inetto, buono a nulla, sarai l'ultimo dei picozzi e pulirai le latrine a tutti i monaci del monastero.

E via, con tutti i buoi, ai paesi suoi.

Note: - picozzo Fratello converso che compie i più bassi lavori manuali.

              - cocolla =   Tonaca pesante con cappuccio propria di alcuni ordini monastici (sec. XIV)

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