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Un marito malvagio

C’era una volta un uomo di cuore molto crudele, che aveva sposato già quattordici mogli, e le aveva fatto scomparire tutte. Finalmente sposò una bellissima giovane che aveva altre cinque sorelle, belle come lei. Gli sposi vissero contenti e felici, ma un giorno il marito, dovendo partire per affari, affidò le chiavi del palazzo alla moglie, ordinandole di non entrare in una camera che egli le indicò.

Passati due o tre giorni la giovane andò a visitare le sorelle, e raccontò loro quello che aveva detto il marito. Una di esse le disse: "Se tu non hai il coraggio di entrare sola in quella camera, andiamo tutte e due, e vediamo che cosa c'è".

Le due giovani tornarono al palazzo, e quando aprirono la porta della camera misteriosa, dove il marito aveva ordinato di non entrare, videro le quattordici mogli appese ad una trave, e sotto un lago di sangue. Terrorizzate da quell'orrendo spettacolo, chiusero la porta, e si ritirarono nelle altre stanze.

Intanto si era macchiata di sangue la chiave di quella porta; e per quanto s'adoprassero di pulirla, non vi riuscirono. La moglie piangeva e si disperava pensando che il marito l'avrebbe uccisa.

Dopo pochi giorni egli tornò, e allorché ella gli consegnò le chiavi, ne vide una macchiata di sangue, e disse: "Hai voluto aprire la stanza che ti avevo proibito, ed ora la mannaia t'aspetta".

La povera donna piangendo lo scongiurò di perdonarla, ma egli era duro e spietato. In quel momento entrarono due bellissimi cavalieri, i quali con un colpo di pugnale lo uccisero, e così la giovane fu salva.

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Pigliatela come Dio te la manda 

Un tale, non avendo figli dalla moglie, n'era addolorato, e pregava i santi affinché appagassero il suo voto. Un giorno gli si presentò una persona (forse era un santo), e disse: "Tu hai tanto desiderio di avere un figlio, e sarai accontentato; ma bada che il giorno in cui egli compirà il ventunesimo anno, morrà ucciso". Il padre disse che era contento, perché pensava che a suo tempo gli avrebbe evitato con qualunque mezzo la morte. Infatti dopo alcuni mesi la moglie mise alla luce un grazioso bambino, che crebbe robusto e sano.

Quando egli fu al ventunesimo anno, il padre, per tema che si avverasse ciò che aveva predetto quel tale, pensò di rinchiudere il figlio in una casetta, che si trovava in un bosco. Lo accompagnò, e gli lasciò tutte le provviste necessarie per parecchi mesi; fra l'altro gli dette un mellone ed un coltello, e lo mise su una trave della volta, per non farlo andare a male. Poi lo pregò di non muoversi da quel punto per nessuna ragione, fino a quando non fosse andato a riprenderlo, altrimenti avrebbe potuto capitare qualche male irreparabile.

Un giorno un cacciatore, passando per quel bosco, vide nella casetta solitaria il giovane e, curioso di sapere cosa facesse, si avvicinò. Non appena gli fu appresso, gli domandò perché stesse in quel luogo; ma quegli non seppe dire nulla, ignorando anche lui la ragione per cui era stato rinchiuso colà; anzi, per avere una compagnia, lo pregò di andarlo spesso a trovare.

Intanto volendo offrire al cacciatore un complimento, prese del formaggio e del pane, e fecero colazione. Il giovane invitò l'ospite a prendere il mellone che si trovava sopra la trave, ma mentre quegli faceva ciò, cadde il coltello che stava vicino, e ferì gravemente il giovane alla gola.

Proprio allora giunse il padre il quale, sapendo che in quel giorno il figlio terminava i ventun'anni, e poteva avverarsi quanto era stato profetizzato da quell'ignoto, volle essergli accanto; e come lo vide, con ispavento, morto, domandò al cacciatore chi lo vesse ucciso. Quegli rispose che era stato lui, ma l'aveva fatto involontariamente.

Il padre si convinse ch'era stata una fatalità, e che si era avverato ciò che gli aveva predetto ventun'anni prima quell'ignoto visitatore, e senza far violenza contro l'innocente cacciatore, ritornò a casa, affranto dal dolore.  

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Il ragno e la scopa

Un ragno era entrato in una casa pulita, e si era messo a fabbricare la sua tela. Ma andò la scopa e gli disse: "Questo non è luogo per te". Egli si nascose, e la notte lavorò alacremente, facendo trovare al mattino una tela in un angolo del muro. La scopa se ne accorse, e tutt'arrabbiata menò un mondo di colpi sul ragno e sulla tela.

Il poveraccio tutto scontento e stordito si provò a fare un'altra volta il suo lavoro per prendere le mosche e i moschini, che volavano per la stanza; egli aveva fame e senza tela non sapeva acchiappare gli insetti; ma la scopa che stava attenta, non lo lasciò un momento: "Vattene, vattene di qua" - si mise a gridare - "in questa casa non voglio ragni, mi capisci, signore bello?" Il ragno se ne dovette fuggire, e andò in un'altra casa, si guardò attorno e non vide nessuno; la scopa dormiva in un angolo. Esso si avvicinò piano piano e disse: "Io sono un povero ragno affamato, e ho bisogno di fabbricare la mia tela; lo permetti tu?" La scopa tutta stonata dal sonno rispose: "Fa il comodo tuo, purché mi lasci dormire". E così il povero ragno poté fabbricare la sua tela, perché quella casa era di una donna poltrona e sudicia.

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Francesco Chiacone

 C’era una volta un ragazzo che faceva di nome Francesco e di soprannome Chiacone. Perché? Ma perché teneva il vizio di tenere il dito grosso della mano destra sempre in bocca e, succhiando succhiando, se lo era fatto diventare grosso e molle a forma di ficosecco ovvero “chiacone”.

Era diventata una canzone. Ogni volta che Francesco scendeva in paese, subito veniva messo in mezzo al gioco da tutti i ragazzi che, zompando e battendo le mani, lo accompagnavano per le strade sfottendolo con una filastrocca:

Chiacone one one

succhia il dito a maccarone   

NOTA

e se pianta un centrone

si cazza il dito come un chiacone.

 

Ora bisogna sapere che la mamma di Chiacone, Addolorata, non aveva manco il tempo di dispiacersi di questo figlio, che non era stato scritto sul libro di quelli che contano, ma che lei teneva comunque dentro la casa e dentro il cuore, perché i figli, si sa, sono sempre figli, pezzi di cuore.

Un giorno che Francesco se ne stava bello, come uno sfaticato, sopra il divano, la mamma, che stava tutta sudata nella cucina a preparare qualche cosa per riempire la pancia, gli gridò di andare nel boschetto a fare un fascio di rami per accendere il fuoco.

– Madonna, ma’! E proprio mo’ devo andare, che mi duole assai il piede! Non lo posso neanche poggiare a terra, che non lo posso, perché ci ho una spina che mi punge forte forte, dentro dentro, e mi dà le botte, che mi dà.

– Se non fatichi, non mangi! - Replicò quella santa donna di Addolorata, per insegnargli qualcosa di buono al figlio.

– E allora non mangio! - Concluse il ragazzo a schiattamento, girandosi dall’altro lato per farsi un altro quartodora .

Ma mentre lui stava per andarsene al sonno, la mamma, crepata, gli fece arrivare una scarpa proprio in mezzo agli occhi, che gli si spalancarono immediatamente per scappare insieme ai piedi verso il boschetto. Lì, Chiacone, sicuro dei fatti suoi, si mise sotto l’ombra di una bella quercia, si schiaffò il dito grosso in bocca e, nemmeno il tempo di dire amen, prese il sonno.

In quel momento, si trovavano a passare da quelle parti le tre fate del boschetto che, a vedere quel quadro così curioso (grosso ragazzone tutto testa, rannicchiato sotto la quercia con quelle coscione rosse rosse e quel dito grosso grosso in bocca), si crepavano di risate.

– Da quanto tempo non capitava di farsi una risata così! - Disse una delle tre fate.

– Sì, è una vita che non succedeva! - Disse la seconda.

– Allora, visto e considerato, a questo guaglione così ridicolo gli dobbiamo dare un premio; giusto? - Disse la terza.

– Giusto! Giusto!

– Vogliamo fare che, appena lui dice un qualsiasi desiderio, il desiderio si realizza? Eh, vogliamo fare? - Sempre la terza.

– Vogliamo fare. Vogliamo.

E così le fate, fatte le faterie loro, se ne andarono canticchiando canticchiando per l’allegria.

Intanto, Francesco dormiva a sonno pieno e dormì fino a quando non sentì nell’orecchio, come in sogno, la voce di mamma Addolorata.

– Mangiapane a tradimentoooooo… pane persoooooo… ti vuoi ritirare sì o noooo!

Francesco s’alzò all’istante e cominciò a raccogliere rami su rami per fare una fascina. Stava per prenderla, quando si rese conto che era proprio brutto faticare; perciò si sedette a cavallo alla fascina per riposarsi e pensare.

– Eh! Come doveva essere bello se, invece di portare io il sarcinello, era lui, come un cavalluccio, a portare me, che a portare!

Detto e fatto: si ritrovò a cavalcare quella specie di cavallo senza né capo né coda. Era proprio bello, come aveva desiderato.

– Essè, Ehò! Ohoh! - Gridava eccitato Francesco, menando paccate alla sua stessa coscia.

E così - essè ehò ohoh - la fascina si divertiva anche lei a trottovolare; tanto che, prima di prendere la via di casa, si buttò a capo fitto dentro le strade del paese.

Questa strana cavalcata si trovò a passare anche davanti al castello del Re, dove le dame di compagnia della principessa Ceramara stavano a menarsi il vento sulla loggia. Quando si accorsero del fatto, subito scapparono a chiamare la padrona che, appena lo vide… Madonna, quante risate… lei e le dame.

Francesco le sentì quelle risate e capì che erano a caricatura verso di lui. Perciò, prima di scomparire dietro l’angolo, lui e la fascina, buttò una sentenza in direzione della principessina.

– Ceramara, Ceramara… così dovrai ridere anche quando, fra nove mesi, figlierai un figlio mio.

Francesco se ne tornò a casa e Ceramara, con tutte le altre, continuò a ridere.

Passato il santo, passata la festa? Ennò! La festa, se vogliamo chiamarla così, successe nove mesi dopo, quando Ceramara partorì un bel maschietto.

E com’è e come non è, il Re suo padre, Re Lasciamistare, s’incazzò di brutto e voleva giustizia.

– Ma da dove esce questo fatto? Di chi è questo bambino? A chi appartiene? - E ordinò - Portatemi qui il padre che, dopo che gli faccio un bel lisciebbusso, mi mangio il fegato, mi...

I consiglieri, che stavano lì apposta per consigliare, lo portarono sul filo del ragionamento e gli fecero capire che solo con le buone si poteva sbrogliare la matassa.

– Sire, facciamo uscire davanti alla porta la principessa con tutto il bambino e stiamo a vedere… se il bambino dà segno di conoscere il padre, allora… E li puniremo tutti e tre.

Il Re si calmò e ordinò. Quando la povera Ceramara, col bambino in braccio, si andò a mettere davanti al portone del castello, un mare di cristiani s’avvicinò a guardare. Anche Chiacone s’avvicinò a guardare. Si avvicinò, si avvicinò tanto, che il bambino fece col dito verso di lui e si mise a piangere ché voleva andare da lui. Fu così che il Re si trovò di fronte il colpevole…

Lo squadrò bene bene e, dopo averlo pesato con gli occhi, deliberò.

– Che questa immondizia di cristiano, insieme al frutto del peccato e alla traditora di quella che fu mia figlia, siano chiusi in un caratello e buttati a mare. Possa il mare fare da giudice e dare una calmata alla mia rabbia reale.

Ceramara, sapendo pure lei che col mare non si scherza, quando si trovò chiusa dentro il caratello, cominciò a capire veramente che cosa voleva dire quel proverbio, perché il mare, appena diventò padrone del caratello, cominciò a giocare a pallafaitu. Se lo metteva sulla punta di un’onda e da quella, oopplà, lo faceva rotolare sopra un’altra onda, e più stava e più s’agitava, il mare.

E, vedendosi persa, cominciò a pensare che era veramente arrivata l’ora sua.

– Che cosa! - Pensava. - Una morte che non auguro neanche ai cani! Dentro un caratello, con questa povera creatura innocente e questo scemo di guerra che se la gode con il dito in bocca e una faccia da festa patronale! Morire dentro un recipiente che è stato pieno di vino e che ha dato tanta allegria, invece mo’ è diventato una tomba che ci porta alla morte. - Poi, rivolta a Francesco. - Ehi, a te! Prima che l’acqua comincia a chiudere la via dell’aria, mi vuoi fare capire che cosa è successo? E com’è possibile che tu sei il padre di mio figlio? E poi… perché? E perché ci sono tanti perché ai quali non so rispondere? Io, a te, ti ho visto solo una volta quando, scemo scemo, te ne andavi a cavallo a un sarcinello. E poi? - E aspettò una risposta.

– Io tengo fame! Voglio fave e cicoria! Se vuoi che ti conto la storia, dammi dammi fave e cicoria! - Disse semplicemente Chiacone, proprio come un chiacone.

E, subito, il suo desiderio diventò fave e cicorie; tante fave e tante cicorie, che un altro poco non si poteva stare più nel caratello. Subito Francesco si abbuffò e cominciò a contare la sua storia fino alla sentenza che aveva buttato addosso a Ceramara.

La poveretta, che era intelligente, afferrò a volo la situazione e capì anche che quel babbeo che teneva appresso poteva realizzare desideri. Ma, mentre stava studiando il sistema per cambiare le cose da così a così, uno schianto fece aprire il caratello sopra uno scoglio.

– Evviva, l’ora è fuggita, non si muore più! - Pensò la principessa, mentre agguantava il piccoletto, che con i suoi uè uè dava voce alla paura.

Quindi si rivolse a Chiacone.

– Mo’ che siamo sulla terra, perché non ce ne andiamo ad abitare dentro un bel castello? Proprio qui, vicino al mare, eh? Così possiamo prendere tanti pesci e campare come si deve! È vero che vuoi abitare dentro un castello, prendere tanti pesci e campare come si deve, Chiacone mio? - Chiese, ad arte, Ceramara a Chiacone.

– Se vuoi che ti cambio la storia, dammi dammi fave e cicoria! - Replicò a ritornello il piglianculo.

Di nuovo abbondanza di fave e cicoria e di nuovo grande abbuffata. Con la pancia piena e qualche rutto, lo scemo disse finalmente il desiderio…di Ceramara.

– Come doveva essere bello se proprio qui c’era un castello, così poi da qui dovevo pescare per campare come si deve!

Ed ecco che, in un lampo e senza fastidi, si trovarono dentro un castello da favola.

Era proprio da ridere a vedere Chiacone vestito con una tuta da pescatore di lusso con in mano una canna all’ultima moda che aveva attaccati all’amo tanti pesci, uno in bocca all’altro… come una lunga catena di pesci di tutti i colori. E ridevano tutti, servi e principessa. Anche il piccolo miagolò di contentezza e stese le braccia verso il padre, che però non aveva capito un tubo.

Per fortuna che Ceramara sapeva ciò che si doveva fare e, proprio per questo e per non tenersi più davanti agli occhi quella faccia stupida, sperò in un’altra fateria.

– Eh, come doveva essere bello se tuo figlio aveva un padre aggraziato e con un cervello dentro la cocozza! Non ti pare, mio signore?

– Se mi dai fave e cicoria, posso cambiare faccia e memoria.

Accadde così che, dopo quest’ultima portata, Chiacone, come se nulla fosse, si trasformò completamente, da ficosecco in un bel fico…di giovane Francesco. Le risate cessarono e Francesco, trascinato dalla canna, senza più pesci all’amo, si ritrovò in faccia al mare, dove subito subito capì cosa voleva dire la madre quando gli diceva che il lampasciolo se lo vuoi lo devi scavare.

Passarono gli anni… una decina d’anni.

I due, Francesco e la principessa, vivevano felici e contenti vicino al mare e con i frutti del mare, mentre il piccolo Odoredimare (così lo avevano chiamato per gratitudine verso quel mare che tanto benessere aveva saputo dare loro) cresceva come un signore.

E il Re padre? Il Re padre, Re Lasciamistare, s’era chiuso dentro il palazzo e dentro sé stesso e non voleva vedere più nessuno. I consiglieri sempre a consigliare.

– Sire… dovete uscire! Così si può morire! Bisogna reagire! Mio Sire, Tuo Sire, Nostro Sire!

Inutile! Era tosto, finché, finalmente, si fece convincere ad accettare l’invito di un suo collega Re, che lo aveva chiamato ad una battuta di caccia nel Regno di Motelodò. Mica lo sapeva quello che gli stava per succedere!

Si mise in viaggio con la meglio delle sue navi e, navigando navigando, non si va a guastare la nave proprio dalle parti di un castello che stava vicino al mare? E non vuoi che, col cannocchiale, la prima persona che vede sulla terraferma è proprio un pescatore? E non vuoi che, senza saperlo, quel pescatore è proprio suo nipote Odoredimare? E non vuoi che è proprio Odoredimare che, senza saperlo, lo aiuta a sbarcare aiutato da tutti i servitori del castello?

Re Lasciamistare chiese ospitalità e, come se era destino, l’ospitalità gli fu data proprio dal nipote, che lui aveva conosciuto soltanto in fasce. Fu allora che il Odoredimare, che per natura sentiva forte la voce del sangue, gli gettò le braccia al collo e si mise a gridare.

– Tatà Sire, tatàsire! Finalmente!

Lasciamistare, questa volta, si fece abbracciare con piacere dal nipote ed ebbe ancora più piacere quando vide comparire sua figlia insieme a un bel giovane che, poi glielo spiegarono, era proprio quella specie di cristiano che aveva mandato a morte.

Pace fatta capo ha… e, così, la famiglia riunita si imbarcò sul legno per raggiungere, mare mare, il Regno di Lasciamistare, dove fecero una tale festa che ancora oggi, se vi trovate a passare di là e chiedete a qualcuno, vi sentirete ripetere la famosa storia di Francesco Chiacone.

Io vivo felice e contento! E tu?

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La storia dell'uccello grifone

Una volta campava in un paese un padre, che aveva due figli: uno era buono di cuore e bello di faccia; l'altro era birbante e sfaticato. Il padre diceva sempre che si dovevano voler bene a vicenda, ma il cattivo invidiava il buono.

Quando morì il padre, il figlio onesto si mise a lavorare ed acquistò un'agiata posizione; l'altro, che era vizioso e poltrone, diventò pezzente, e pretendeva sempre quattrini dal fratello. Un giorno andò in campagna alla di lui casina e gli chiese altri denari. Vennero a rissa violenta, e il birbante, uccise il buono e se ne fuggì.

Quando il giorno dopo andarono i guardiani alla casina, trovarono il cadavere dell'ucciso; dopo essersi recati al paese a dar conto alla giustizia, lo misero nella cassa mortuaria, e la portarono al cimitero. Per sapere chi fosse stato l'uccisore domandarono a tanta gente, ma nessuno seppe dir nulla.

Una notte, mentre alcuni contadini si recavano in campagna, passando vicino alla casina, dove era stato commesso l'omicidio, videro uno spirito che si agitava nei dintorni, e sentirono un bisbiglio. Prima ebbero paura, perché credettero che fosse il demonio; ma poi si fecero coraggio e andarono a vedere chi fosse.

Quando furono vicini, notarono un grifone, che diceva con voce lamentosa:

Per l'amore dell'uccello grifone,
Mio fratello è stato il traditore.

A sentire queste parole provarono spavento: si fecero il segno della santa croce, e se ne andarono.

La sera dopo, mentre passavano, intesero di nuovo le stesse parole; allora capirono che quel grifone era l'anima del giovane ucciso, il quale voleva vendetta, e si persuasero che il traditore, che l'aveva ammazzato, era proprio il fratello.

Si presentarono al giudice, e gli narrarono il fatto.

I carabinieri arrestarono il birbante, che prima negò la colpa, poi stretto dalle domande del giudice, s'indusse a confessare il misfatto .

Si discusse la causa e l'assassino fu condannato al carcere a vita. Egli credeva di non essere colpito dalla giustizia, perché nessuno lo aveva visto quando aveva commesso il fratricidio; ma Dio, che è grande e giusto, lo fece denunciare dall'uccello grifone.

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