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CIUCCIO CACATORNESI

La famiglia: numerosa. La miseria: assai. Una madre, nessun padre, cinque figlie femmine, un figlio maschio. Si giunse al punto che il mangiare scomparve definitivamente dallo stipone.

Lontana da ogni paese, questa unita ma sventurata famiglia aveva avuto proprio un brutto destino.

L'unica possibilità per sopravvivere era quella di tentare la fortuna. Chi avrebbe potuto? E come?

Leggendo negli sguardi muti delle donne di casa, l'unico maschio della famiglia capí che toccava a lui. E cosí, all'alba di un giorno difficile, in cerca di fortuna, il giovane chiese ed ebbe la benedizione dalla madre, quindi partí per affrontare monti mari vallate boschi scarpate fiumi e... e cammina e cammina, e di qua e di là, e pensa e pensa, il giovanotto si mangiava la testa per trovare la soluzione al problema suo e della sua famiglia.

Camminando camminando, pensando pensando, non vuoi che t’incontra un vecchio? Con la barba bianca, bassino e con gli occhietti vispi, parlando appena appena con l'indice sollevato.

- Questo che ti regalo pare un ciuccio - disse -, raglia e mangia paglia come un ciuccio, ma non è soltanto un ciuccio.

- Chissà cosa sarà? - domandò quasi a se stesso il giovane.

- Le vedi queste? Sono zampe! Ha orecchie, lunghe. Una coda di crine e sotto la coda...

- Il culo! - intervenne il buon ragazzo.

- Ecco! Bravo! Questo ciuccio può darti tante monete tutte le volte che pronuncerai: "Ciuccio cacatornesi."

Tutto contento e soddisfatto, il ragazzo si rimise in viaggio verso casa. Camminando camminando, fantasticando fantasticando, sopraggiunse la notte. Come poteva trovare la strada al buio? La fortuna gli venne in aiuto; poco distante, intravide un convento.

- Buoni frati, date ospitalità per questa notte a un povero giovane e a questo ciuccio cacatornesi?

- Come, come? - chiesero i frati. - Sí! Questo ciuccio mi farà ricco! Infatti se io dico: "Ciuccio, cacatornesi!" -, questo ecco... .

A queste parole istantaneamente il ciuccio sbrodò monete d'oro e d'argento. Si meravigliarono i frati. Si presero i soldoni i frati. Si prodigarono i frati con mille gentilezze nei riguardi del giovane e portarono il ciuccio nella stalla. Durante la notte, i fraticelli, mentre quello dormiva, ritornarono nella stalla e sostituirono il ciuccio fatato con uno di uguali fattezze ma senza potere di culo. Quando, al mattino, il buon ragazzo riprese la sua strada, i fraticelli si fregarono ben bene le mani, prima di giungerle.

Camminando camminando, fantasticando fantasticando, il giovane giunse finalmente a casa. Non ci fu molta festa a vederselo arrivare cosí com'era partito, ma ci furono ansia e sorpresa quando il giovane, con aria di saputo, chiese un lenzuolo bianco e pulito per dar luogo a un grande avvenimento.

Un bianco lenzuolo fu approntato (unico e ultimo) e spinto al centro di esso il ciuccio...

- Ciuccio, cacatornesi! - ordinò il ragazzo.

Ma, quello, nemmeno un raglio: come se non era a lui.

- Ciuccio, cacatornesi! Ciuccio, cacatornesi ho detto! - Ma di tornesi nemmeno l'odore.

L'odore e il resto si ebbero subito dopo che il ragazzo, spazientito, cominciò a scaricare calci e bastonate.

Infatti, per la paura, il ciuccio prese ad andare di corpo inondando il lenzuolo e spruzzando i presenti con roba che con l'oro e con l'argento avevano proprio poco a che fare.

Nemmeno il tempo di rendersi conto e il giovane, riarmatosi della sua bontà, si ritrovò per strada solo e di nuovo con la speranza di cercare rimedio ai guai suoi e della sua sventurata famiglia.

Camminando camminando, pensando pensando, non vuoi che t'incontra un vecchio? E non vuoi che è lo stesso vecchio di prima? Stessa barba, stessi occhietti, stesso indice, e un sorrisetto in piú.

- Ti darò la tovaglia di comando questa volta, - disse - ma attenzione, dovrai dire le parole "Tovaglia ti comando", dopo averla stesa sopra un tavolo da cucina. E potrai ordinare tutto quello che desideri!

Camminando camminando, fantasticando fantasticando, giunse la notte mentre egli giungeva nei pressi di un altro convento.

- Buoni frati, date ospitalità per questa notte a un povero ragazzo che deve fare molta strada ancora prima di giungere a casa per portare da mangiare alla sua famiglia che soffrirà la fame finché non arriverò io con questa tovaglia, che se la metto sul tavolo e dico: "Tovaglia ti comando pane, agnello arrosto, pesce, fritto di pesce, dolce, maccheroni...".

E mentre il buongiovane enumerava pietanze, lí sulla tovaglia, si concretizzava il Bendiddio.

Si meravigliarono i fraticelli e, tra una meraviglia e l'altra, s'ingozzarono. Poi dettero alloggio al giovane, cosí come si conviene a tutti i frati di tutti i conventi di tutti i paesi, e andarono tutti a dormire.

Durante la notte i fraticelli, mentre quello dormiva, sostituirono quella tovaglia con una tovaglia uguale ma senza potere di gola.

Quando, al mattino, il buon ragazzo buono riprese la sua strada, i fraticelli, sorridendo, si fregarono le mani giunte.

Camminando camminando, fischiettando fischiettando, fantasticando fantasticando, giunse finalmente a casa.

Il ricordo del precedente e deludente ritorno non era ancora svanito, ma il giovane seppe riaccendere la speranza negli occhi e nella pancia dei suoi, annunziando i pregi della tovaglia di comando. E quando il giovane preparò la tavola con la tovaglia, nessuno in famiglia riusciva a nascondere il proprio desiderio e la propria acquolina.

- Tovaglia ti comando maccheroni, pesce fritto, mortadella...

- Tovaglia ti comando! Tovaglia ti comando, ho detto! E giù, spazientito, botte e strappi alla tovaglia.

Ricamminando ricamminando, ripensando ripensando, il giovane si ritrovò a riprendere la sua emigrazione.

Strade valli salite discese valli... il vecchio gli occhi la barba l'indice il sorriso.

- Ti do questo bastone di comando - disse -, ma sta' attento; dovrai dire: "Bastone di comando, testa per testa, tosto, batti testa ad ogni costo, che non sia la mia testa!" Ritorna con esso nei conventi dove sei stato e puntini puntini.

Camminando camminando, capendo capendo, pregustando pregustando, giunse al primo convento.

- Ridatemi il ciuccio. No? Bastone di comando, testa per testa, tosto, batti testa ad ogni costo, che non sia la mia testa!

E appena pronunciate le parole, dinghete e danghete, botte e strabotte, cominciò a scorrere sangue finché i fraticelli non accondiscesero alla richiesta fatta.

Col ciuccio ed il bastone, giunse al secondo convento.

- Ridatemi la tovaglia di comando! No? Bastone di comando, testa per testa, 'sto, 'sta,

'sto, 'sta!

E dinghete e danghete, botte e strabotte finché i fraticelli non si calarono.

Col ciuccio, la tovaglia ed il bastone, il giovane, solo due volte buono, tornò finalmente a casa.

Vi lasciamo immaginare l'iniziale diffidenza, la successiva sorpresa e la finale felicità di vedere realizzati tutti, ma proprio tutti, i desideri di una madre, cinque figlie femmine e un maschio: una famiglia ricolma di tanta fortuna quanta era stata la sfortuna all'inizio di questa storia, ma storia non è piú, guai a loro e ridi tu!

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Il bel Castello ...ndiro ndello

IL DIAVOLO ZOPPO

C’è ancora il castello ad Otranto.

Una volta, in quel castello, c’era un Re, sua figlia e cortigiani e servi e soldati.

Il Re era molto saggio e buono; invece la figlia, bella come il sole, era superba e amava le ricchezze e le comodità. Molti principi facevano la fila per averla in sposa, ma lei li rifiutava tutti, perché s’era messo in testa che voleva un principe ricco, ma così ricco, che doveva tenere, niente di meno, la barba d’oro e i capelli d’argento.

Il diavolo, da sotto alla terra, lo venne a sapere e ridendo sotto i baffi decise di accontentarla. Prese dalle viscere della terra ogni razza di pietra preziosa, ne riempì cento casse e, dopo aver rivestito d’oro la sua nave, partì in direzione di Otranto. Camuffato da principe giovane, barba d’oro e capelli d’argento, con la nave carica di cento casse, il diavolo risalì il capovento che sta al centro dell’oceano e, dopo poco, giunse a Otranto.

Le guardie del castello, veramente, come videro uno strano luccicamento che camminava sopra il mare, sospettarono qualcosa di diabolico. E quando videro un giovane principe dorato e argentato dalla testa ai piedi scendere dalla nave e dare ordini, immaginarono qualche cosa di brutto.

La principessa, avvertita di questo arrivo, si vestì come una regina, contenta che finalmente si poteva levare il desiderio.

Il diavolo, ricevuto a corte, fu subito invitato a mangiare e si mise a ragionare a tu per tu col Re, mentre la principessa pensava a guardare i doni preziosi che aveva ricevuto, e non vedeva quanto era brutto di faccia quel principe.

Dopo mangiato, il Re, da solo a sola, la consigliò e sconsigliò, ma lei, sorda e capatosta, volle sposare lo stesso quel brutto ma ricco principe.

Bando. Invitati. Cerimonia. Festa. Saluti. Partenza.

Partirono subito lo sposalizio e solo quando una specie di magia spinse la nave verso il capovento dell’oceano e s’aprì il portone grande grande dell’inferno, la principessa capì.

– Volevi ricchezza e tesori? Bene, qui c’è tutto l’oro della terra. – Le disse il diavolo del marito.

Sì aveva avuto proprio tutto, ma non aveva più sé stessa.

Pianse. Piangeva notte e giorno! Notte e giorno! Notte...

Proprio quella notte qualcuno bussò alla porta. Lei, con gli occhi rossi di pianto, andò ad aprire e un diavolo vecchio e zoppo le parlò.

– Sono il fratello maggiore. Mi odia. Fu lui a rendermi zoppo. Tu sarai la mia rivincita. Ti farò fuggire, basta che fai sapere a tuo padre questa cosa: solo sette fratelli che sanno fare sette cose speciali possono salvarti. Tu sarai salva ed io vendicato.

Subito la principessa si tolse il pianto dagli occhi e si mise subito a pensare.

– Felice! Per prima cosa devo sembrare felice. E, poi, vediamo un po’. Che vuole, un erede? Lo avrà, però mi deve fare partorire a casa mia, mi deve.

Così fece e così...non fu.

Calcolando il giorno del parto, il diavolo, in tempo utile, andò da solo a Otranto e convinse la vecchia mamma di latte della principessa, che era anche una levatrice in gamba, ad andare con lui. Il vecchio Re lo pregò di fargli conoscere presto il nipotino. Il diavolo promise e ripartì.

Quando seppe chi aveva sposato la sua padroncina, la vecchia mica fu tanto sorpresa!

– Così impari. - Le disse. - Perché non hai dato ascolto a tuo padre?

Ma la povera principessa era cambiata nel cuore. Aveva capito a suo spese il suo errore e, così, pregò la mamma di latte di perdonarla e di aiutarla a uscire di lì. Come? Così e così.

Nacque il bambino, brutto come il diavolo e gridava manco i cani. Le due donne fingevano contentezza e il diavolo pensò che sua moglie si era fatta capace, finalmente.

Quando la vecchia gli chiese di essere riportata a Otranto, il diavolo acconsentì, ma ad un patto.

– Se poco poco apri la bocca e ti scappa di dire quello che hai visto quaggiù, ti faccio fare una brutta fine, quant’è vero belzebù.

Ma appena la nave dorata sbarcò e il diavolo fu ripartito, di corsa la vecchia, strafregandosene del patto, andò a raccontare tutto al Re. E subito cento soldati a cavallo partirono per tutti i paesi in cerca di sette fratelli che sapevano fare sette cose speciali.

Una ricerca senza fine, fino a quando il più vecchio dei soldati si ricordò che sopra Montegargano abitavano sette fratelli. Scalò la montagna e trovò la casa, dove, in quel momento, stava solo la madre dei ragazzi, alla quale il vecchio soldato lesse il bando.

La figlia del Re è prigioniera del diavolo. Possono salvarla soltanto sette fratelli che sanno fare sette cose speciali. I sette fratelli che la salveranno riceveranno in premio un castello ciascuno. La principessa, poi, sceglierà tra loro il suo sposo, che sarà pure il futuro Re. Punto e basta.”

La madre disse che non sapeva che i figli sapevano fare cose speciali, ma promise che al loro ritorno si sarebbe informata e, nel caso, li avrebbe mandati dal Re.

Si fece sera e rincasò il primo dei figli.

– Buonasera guaglio’, che cosa hai fatto di bello oggi?

– Ti ho pescato dieci cefali e dieci capitoni.

– Bravissimo! Ma come hai fatto?

– Come sempre, ma’. Mi sono buttato a nuoto e li ho presi per la coda. Io, a nuotare, sono come una saetta e, se voglio, posso trasportare a nuoto i miei sei fratelli senza alcuno sforzo.

– E bravo a quel figlio mio. Mi pare una cosa speciale. Entra, scià, ché la zuppa è pronta!

Arrivò pure il secondo figlio.

– Buona sera figliolo, che cosa hai fatto di bello oggi?

– Ti ho tagliato un montone di legna!

– Bravissimo, ma come hai fatto?

– Come sempre mammina. Io spingo una vecchia quercia e quella cade a terra; poi con l’accetta la faccio a pezzi come un salame; in due minuti è tutto fatto!

– Non è certo da tutti! Entra, ché è pronta la zuppa.

Arrivò il terzo.

– Buonasera figliolo, che cosa hai combinato di bello oggi?

– Ti ho portato una lepre e un fagiano, come mi avevi chiesto!

– Sììì? E come hai fatto?

– Come sempre, o ma’. Io ho un orecchio fortissimo, mi basta poggiarlo a terra e sento i passi di chi sta camminando nel raggio di dieci miglia.

– Non è una cosa da niente! Entra, ché è pronta la zuppa.

Arrivò il quarto.

– Buona sera giovanotto, che cosa hai fatto di bello oggi?

– Io ho guardato le pecore, come sempre, e mi sono divertito assai.

– E come?

– Mi metto a fare giochi nuovi. Costruisco. Con quello che trovo, in quattro e quattrotto, costruisco ogni cosa. So costruire anche capanne resistenti al fuoco e al terremoto.

– Bravissimo! Entra e mangia la zuppa.

Arrivò il quinto.

– Buonasera figliolo, che cosa hai fatto di bello oggi?

– Ho zappato e arato e poi ho anche mangiato.

– Ma come hai fatto?

– Ho zappato con la zappa, arato con l’aratro e mangiato il mio pane che non si strugge mai. Lo faccio con la farina di grano cresciuto in un posto dove è caduto un fulmine. Più lo taglio, il pane, e più ricresce.

– È come un miracolo. Entra, ché è pronto.

E giunse pure il sesto.

– Buonasera figlio mio, che cosa hai fatto di bello oggi?

– Nulla, nulla. - Disse quello, arrossendo come un gambero.

– Dai, dimmi la verità!

– Eh ma’, non sai? Io faccio il ladro e oggi ho rubato l’anello a una signora. Sono così svelto, che saprei rubare la moglie dal letto del diavolo senza svegliarlo.

– Per ora vai a mangiare, poi si pensa.

Arrivò il settimo, il più giovane.

– Buona sera guaglio’, che cosa hai fatto di bello oggi?

– Ti ho raccolto le fragole, le more, un po’ di miele e questo mazzo di fiori tutto per te.

– Sicuro che non hai fatto altro di bello?

– Ho fatto rivivere un povero uccellino caduto dal nido; ho fatto volare col mio fiato una farfalla che pareva morta; ho riscaldato un coniglio che s’era perso e che s’era infreddolito. Io amo tutte le cose belle e mi piace vederle vive.

– Sei proprio un capolavoro di figlio. Entra a mangiare.

Una volta a tavola, la madre raccontò ai ragazzi del bando reale.

I sette fratelli, senza parole, misero la strada per Otranto sotto i piedi e si avviarono.

Quando arrivarono al castello, la vecchia mamma di latte spiegò loro le difficoltà che avrebbero incontrato, mentre il Re li pregò di fare tutto il possibile per salvare la figlia.

– Sono vecchio. Salvate la mia bambina. Salvatela! Subito! O non camperò più.

Va bene. Va bene.

Il Re voleva dare ai fratelli una nave, ma il fratello pescatore spiegò che la nave era un mezzo troppo lento.

Scese in acqua, fece attaccare i fratelli alle sue spalle e partì come una saetta.

Ecco il capovento. Ecco il grandissimo portone di legno...chiuso da dietro.

Il fratello boscaiolo, senza sforzo, allargò appena il portone per farci passare il fratello ladro. Questo, come un gatto, si ficcò nella caverna, prese la principessa, se la caricò sulle spalle e la portò fuori. Il fratello pescatore nuotò e...

…ecco Otranto! Notte! Silenzio!

A quel punto, il terzo dei fratelli, il cacciatore, sentì rumori di acqua che venivano da lontano. Una nave! O capperi! Il diavolo si era svegliato.

Se ne scapparono tutti insieme dentro il castello, menarono il ferro da dietro e si misero ad aspettare le mosse del pieno di corna.

Allora dentro il castello, il fratello cacciatore, dopo aver poggiato l’orecchio alla terra, segnalò:

– Uè, il cornutone sta arrivando; sento il suo passo di diavolo.

Il fratello pastore, in quattro e quattrotto, costruì una capanna e via tutti dentro.

Arrivò il diavolo. Con lingue di fuoco distrusse il pesante portone del castello; poi, col sangue agli occhi, gridò verso la capanna.

– Io non ho nessuna fretta. Mi siedo e mi metto ad aspettare la vostra fame e la vostra sete.

Allora il cielo s’oscurò e cadde un macello di pioggia. Così i ragazzi potettero bere e, mangiando il pane che non si strugge mai portato dall’altro fratello, potettero resistere per un sacco di tempo.

Alla fine, il diavolo si stancò.

– Va bene, avete vinto, me ne vado. Ma prima fatemi salutare mia moglie. Fatemela vedere almeno un momento.

– Sciò, levati davanti agli occhi, caprone.

– Avete ragione. Io sono il diavolo e non potete avere nessuna fiducia di me. Ma almeno lasciate che le baci la punta di un dito.

– Ancora non te ne vuoi andare? Via! - Risposero quelli.

– Guardate che, se mi sfotte la pazienza, io brucio tutto il raccolto, prosciugo tutti i pozzi, uccido ogni cristiano nel raggio di cento miglia, se il mio desiderio non verrà accontentato!

La principessa s’impietosì e si dichiarò disposta ad ogni cosa, basta che non si faceva del male alla gente innocente.

– Mi basta baciare un dito. - Ripeteva quel disonesto.

Allora i fratelli trovarono il sistema di far uscire dalla capanna solo il bel ditino della principessa.

E fu così che quel disgraziato del diavolo, con un urlo bestiale, glielo addentò, glielo staccò di netto, e se ne scappò.

La principessa cadde a terra. Era morta?

Certo è che pareva ancora più bella con quella cera bianca. Il fratello più giovane, che se la beveva con gli occhi, le sollevò il capo, le sfiorò la fronte e, con una carezza, le ridette la vita.

– Ho pagato la mia stupidaggine. - Disse per prima cosa lei, mentre il colorito le ritornava normale.

Comunque, la brutta avventura era finita e, quando si presentarono al Re, il passato era morto e sepolto.

Nessuno riuscì a trattenere la felicità di papà Re, quando la principessa, mantenendo fede alla promessa del bando, scelse il suo futuro marito.

Quale dei sette?

Per la nostra storia non fa differenza. L’importante è che vissero tutti felici e contenti per tanti e tanti anni, e che gli sposi ebbero tanti figli, tutti molto belli.

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Tutti i colori di Primavera

Raspatella

C'era una volta una fanciulla bella bella bella.

Il padre, un bravo lavoratore, si rinfrescava gli occhi quando guardava la figlia perché subito si ricordava della buon'anima della moglie che aveva tanto amata e che, giovane giovane, se n'era andata all'altro mondo.

La bellezza della giovane e la contentezza del padre si completavano con la gioia di vivere, insieme, nella casa dirimpetto al castello del Re: vedere il via vai di tante persone ben vestite era un piacere. Forse per la bellezza della ragazza, forse per la vicinanza alla casa del re, forse perché il re era giovane e scapolo, fatto sta che il bravo lavoratore aveva sempre fisso in mente un pensiero che non osava confidare nemmeno alla sua ombra: - Ètanto bella che... Sì, ...è degna di un Re!

Comunque, senza altre pretese, i due erano contenti di condurre quella vita: il padre a lavorare e la figlia a preparare i pasti, fare i servizi e cucire e ricamare. Per cucire e ricamare la giovane, con tutti gli strumenti, si metteva alla finestra e, mentre il sugo bolliva o il minestrone sul fuoco consumava  l'acqua in sovrappiù, cuciva e cuciva ritmando il suo lavoro con motivetti allegri e vari.

Il figlio del Re, dirimpettaio della bella fanciulla che si chiamava Rossella (detta Raspatella: antico soprannome di famiglia affibbiatole per via di un nonno cha coltivava semplicemente un'uva chiamata raspatella per via del gusto asprigno), era attirato da quella bellezza e, di nascosto, se la mangiava con gli occhi.

Il tempo passava, i giovani crescevano e il bel principe, sempre attento a spiare quella sua immagine della bellezza, spia oggi spia domani s'infatuò a tal punto che, uccidendo la timidezza, prese il coraggio a due mani e...

- Come vi chiamate? - domandò più col cuore che con la voce.

- Il mio nome è Rossella! - gli fu risposto.

- Come siete bella.... ma proprio bella, Rossella! - riuscì ad articolare, senza accorgersene, il principe. E quando le guance della Bella diventarono rosse, aggiunse: - Chi prenderai per marito?

- Io? Io sono figlia di lavoratore e... - con tono insinuante e provocatorio -  sposerò un lavoratore: un calzolaio? 

- Oh, no! - sospirò il giovanotto - Meritereste molto di più... di più... di più! 

- Non voglio far morire la speranza! - Pronunciò Rossella con un sorriso tra le labbra strette e.. - "Figlio di re mio, non mi dispero; Tu mi sei marito, e io ti sono moglie" - intonò  la fanciulla modificando il parlato in canto.

Rise con malizia il principino e si ritirò.

Il giorno dopo... uguale: le stesse occhiate, lo stesso rossore le stesse parole, la stessa canzone ...Tu mi sei marito e io ti sono moglie.

Al Principe Felice quella canzone cominciò a piacergli a tal punto che gli entrò il verme in testa e alla Mamma, la Regina Cuccia, disse che bisognava portare l'ambasciata a Rossella perché...: - ..solo lei merita di stare al cospetto della mia bella mamma Regina. - aggiunse con una carezza e un sorriso.

La mamma regina, cuccia cuccia, a dirgli di qua e di là, di sopra e di sotto che non era cosa, che lui era di sangue reale e quella di sangue banale e... eccetera eccetera, ma... niente da fare: era proprio Rossella che voleva quel figlio principe capatosta: - Voglio quella che lavora con ago e filo alla finestra dirimpetto.

Arrivò un giorno che, tristemente, il principe Felice si dovette allontanare per affari di regno e, appena fu partito, la Regina mandò a chiamare Rossella. Rossella non si meravigliò; tirò fuori dal cassone delle robe il vestito con tutti i colori della primavera e andò al palazzo reale. 

La regina la fece sedere e cominciò a dire quanto era bella e quanto era bella (era tutto un trucco per perdere tempo perché, non visto, un grande pittore in quel preciso istante, faceva il ritratto alla bella Rossella).

Quando la regina licenziò Rossella dicendo quanto era bella e quanto era bella, il pittore le mostrò il ritratto e la Regina disse: - Ma quanto è bella... ma quanto è bella!

Quando ritornò il figlio, la regina gli presentò il ritratto dicendo: - Ecco la sposa, questa è la figlia del re di Portogallo... Quanto è bella!

Il principe rimase a vedere quel ritratto perché si accorse della somiglianza con la sua Rossella e, proprio per questo, disse subito: - Va bene, ma... se Rossella avesse questa veste con tutti i colori della primavera, sicuramente sarebbe più bella!

Arrivò il giorno del matrimonio e la regina, per portare avanti il suo piano, mandò a chiamare Rossella e, d'accordo con la principessa del Portogallo, fece sposare effettivamente la bella Rossella, vestita con quel bell'abito colorato, con il Principe che era felice di nome e di fatto.

Tutti i cortigiani e gli invitati, venuti da tutti i regni vicini e lontani, a vedere Rossella dicevano: - Quant'è bella... ma quant'è bella!

Il matrimonio fu celebrato e gli sposi si ritirarono e, stanchi andarono a dormire.

La mattina però, prima che il principe aprisse gli occhi, fece tornare Rossella alla casa, e al suo posto, fece mettere la principessa del Portogallo.

Rossella, ubbidiente, tornò alla sua casa, ma... portò con se una bella fascia d'oro che lo sposo le aveva dato.

Il principe quando al mattino aprì gli occhi, con la mente ai piaceri del matrimonio, stiracchiandosi volle chinarsi per salutare la sua Bella... gridò per la sorpresa e per la rabbia scoprendo quell'estranea nel suo letto. Arrivarono le guardie; arrivò la Mamma Regina; arrivarono tutti e, a tutti, ordinò: - Toglietemi davanti agli occhi questa donna!

La principessa fu mandata al suo paese e il principe, sconsortato, non potendo sapere come rimediare a questo tradimento, tanto si amareggiò e da Felice divenne Triste. 

Tutti nel regno diventarono sudditi tristi nel paese del principe Felice, ma... un lieto finale era destinato per questo principe e per i suoi sudditi.

Il tempo passava e il principe, una sera, mentre passava sotto la finestra di Rossella le domandò se aveva sposato il calzolaio e, tra una risposta e l'altra tra un sospiro e l'altro, venne a sapere che la sua bella dirimpettaia era incinta.

Ancora altri mesi e la fanciulla si sgravò di un bel bambino che dopo un anno già correva per la casa e sgattaiolava per la strada.

Fu in una di quelle occasioni che il Principe, tornando da qualche suo viaggio, vide davanti al portone del palazzo questo bel bambino e volle conoscerlo da vicino. A Rossella fu annunciato il desiderio del Principe e Rossella, vestito il piccolo con quella fascia d'oro, lo mandò al palazzo reale come era stato richiesto.

 Figlio di re mio, non mi dispero;
Tu mi sei marito, e io ti sono moglie,

raccontò come erano andate le cose e, con il Principe e il frutto del loro amore, visse felice e contenta. 

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isola

IL FIGLIO DEL MERCANTE

C’era una volta un mercante, Don Beppino, che, sudando tra le stanghe del suo carrettino carico di stoffe nastri merletti e cotoni, se ne andava per le vie dei paesi richiamando l'attenzione con il suo invito:

- Stoffe, stoffe! Chi vuole il colore per ogni stagione? Chi vuole le stoffe più belle del mondo? Accorrete! Accorrete, vedete toccate e comprate!

La mercanzia comprata si lavorava, o semplicemente, si riponeva in bell'ordine, condita da palline di naftalina (per combattere le tarme), nel cassettone in attesa di poterne fare il miglior uso. 

Don Beppino faceva sempre il solito giro per gli stessi paesi e contrade e tutte le donne, al passaggio del pannacciaro, così lo chiamavano, andavano a recuperare, dai vari nascondigli o salvadanai, i risparmi raggranellati e li investivano alimentando i loro sogni: uno sposo amoroso, un genero rispettoso!

Il pannacciaro, con la sua voce e le sue meravigliose varietà di colori, rappresentava l'appuntamento atteso per giorni e giorni.

Così da anni, ogni giorno, dalla mattina alla sera.

Ma arrivò il giorno in cui la stanchezza trovò don Beppino vecchio e non più in grado di fare il mestiere. Il figlio, che ormai era in età di sostituire il padre, abbracciò la croce e si mise a fare il pannacciaro come il padre che lo aveva ereditato dal padre e questi dal padre del padre.

Prima di avviare il figlio Giustino al mestiere, don Beppino lo chiamò e ... :  

- Figlio mio, ormai sono vecchio e malato! Non posso più tirare il carretto! Prendilo tu e va' per le vie dei paesi a vendere le stoffe! Non possiamo vivere senza lavorare! Abbiamo tanto bisogno di denaro!

- Papà, - lo rassicurò Giustino - non temere, farò come tu vuoi!

Così prese il carretto e, tra le stanghe, prese a girare per le vie del paese, di paese in paese, e a lanciare il suo richiamo:

- Stoffe, stoffe! Chi vuole il colore per ogni stagione? Chi vuole le stoffe più belle del mondo? Accorrete! Accorrete, guardate toccate e comprate!

Le donne e le fanciulle tornarono ad affacciarsi felici sulle soglie delle case, si avvicinarono al carretto e ripresero a scegliere e a comprare sogni. 

A fine giornata il giovane era stanco, ma contento: aveva venduto felicità.  Prima di riprendere la strada del ritorno, anche per svariarsi, si stava facendo una passeggiata... il sole stava tramontando. Giunse in riva al mare. Davanti ai suoi occhi si stendeva una spiaggia incantevole. Quando il suo sguardo fu attirato da un movimento di persone: degli uomini che, gridando, gettavano pietre e calci a qualcuno o qualcosa che era lì nel mezzo sotto i loro piedi. Incuriosito, si avvicinò e vide che i calci e le pietre si abbattevano su un corpo di cristiano morto.

- Cosa fate!? - gridò Giustino - Lasciatelo stare, non vedete che è morto? Perché ve la prendete tanto con lui? 

È proprio questo il guaio: è morto! - gridò uno di quegli uomini infuriati. - Ci doveva saldare dei debiti! Ed ora? Chi pagherà?

Il nostro giovane ne ebbe dolore e, indignato, tirò fuori tutto il guadagno della giornata e, alzando la voce, disse: - Prendete questi soldi! Pago tutto io! Lasciatelo in pace!

I malintenzionati, borbottando borbottando, presero i soldi e, un po' meravigliati per quello strano interesse, si allontanarono dividendosi i denari. Il giovane, dopo aver scavato una fossa e sotterrato i resti dello sconosciuto, riprese il carretto e se ne tornò a casa.

Il padre, intanto, lo attendeva ansioso di sapere come se l'era cavata in quella prima giornata di lavoro. 

Arrivò e... :

- ... allora io ho dato tutto il guadagno e l'ho potuto seppellire come un cristiano. - raccontò Giustino al padre che lo ascoltava fervendo dentro di sé.

- Come?! - alla fine sbottò, con quella poca voce rimastagli - Ti rendi conto di quello che hai fatto? Il denaro nel commercio è alla base... e tu ti permetti di spandere così tutto l'incasso di una giornata?! - con una mano alla fronte - Oh, povero me! - con l'indice puntato su Giustino - Ma guai a te se torni senza denaro un'altra volta! - concluse tossendo mentre se ne tornava, vecchio vecchio, nel suo lettone a meditare sulla sua sfortuna. 

Il ragazzo si dispiacque e, anche se non poteva dare torto al padre, non se la sentiva di rimproverarsi più di tanto: aveva agito così come gli era sembrato giusto.

Il giorno dopo si alzò di buon mattino con la brava intenzione di portare a casa un bel gruzzolo da consegnare soddisfatto nelle mani del padre. Prese quindi il carrettino con la roba e, dopo aver preso fiato, si avviò, spingendolo innanzi a sé, per le strade del paese.

- Stoffe, stoffe! Chi vuole il colore per ogni stagione? Chi vuole le stoffe più belle del mondo? Accorrete! Accorrete, guardate toccate e comprate!

E dalle case, le donne di casa, si ritrovarono intorno al carretto. Guardarono, toccarono e scelsero... poi contrattarono e, dopo aver comprato colori e speranze, tornarono in casa, felici.

A ventun'ora il giovane, come l'altra volta, se ne andò a mettere due passi alla spiaggia, prima di riprendere la via di casa. Ma ... era appena giunto che un vociare minaccioso attirò la sua attenzione: tre uomini si contendevano una bella ragazza che disperata chiedeva aiuto...

- Aiutooooo! Aiutoooo! - implorava piangendo.

Il giovane si fece innanzi e, a quegli uomini senza scrupoli, propose di scambiare la ragazza con tutto il guadagno della giornata.

Gli uomini si guardarono e scoppiarono a ridere:

- Questa ragazza per così poco? Ma devi proprio essere matto! - disse uno.

- Lasciatela andare! - insistette il giovane - Vi darò anche il carretto con tutta la roba! Lasciatela! 

Uno di quelli, che sembrava il capo, con una spinta mandò la ragazza lontano da sé e, agguantando il denaro, disse agli altri:

- Prendete il carretto e andiamocene! - e mentre si avviavano - Meglio questo denaro e questa roba! - poi ridendo - Di donne se ne trovano tante!

Così il giovane rimase solo sulla spiaggia con la ragazza che piangeva e tremava per il freddo e la paura.

- Non piangere più! - la consolava - vedrai, ti porterò a casa mia e lì potrai stare felice e contenta!

E lentamente si avviarono verso casa.

Quando giunsero a casa... il vecchio pannacciaro, appena vide il figlio senza carretto, né stoffe, né denaro, capì che c'erano novità e, quando gli fu raccontato tutto, si arrabbiò e ... :

- Sciagurato, buono a nulla! E io che fidavo sul tuo aiuto! Non hai fatto che combinar guai finora! - e, preso nel vortice del furore, puntò il dito verso la porta di casa e... - Vattene! Vattene fuori dai miei piedi e non farti più vedere.

Il giovane, senza una parola, prese la mano della ragazza e, insieme, si trovarono in mezzo ad una strada.

La bella giovane, a quel punto, pregò il giovane di lasciarla andare perché lei avrebbe tentato, mare mare, di raggiungere il suo paese e lì avrebbe cercato di guadagnarsi da vivere tessendo. E, per rassicurare il giovane, gli raccontò 

- Filo e tesso oro e argento. Ho lavorato per conto di re, regine e principesse ed ero felice, ma in paese qualche persona gelosa ha intrigato e... così un giorno venni rapita e portata su una nave. Qui fui venduta ad un mercante: quello stesso che sulla spiaggia, poco prima, mi ha ceduta in cambio del denaro e di tutto il resto.

Il giovane, che mai avrebbe pensato minimamente di lasciarla andare, dopo aver ascoltato in silenzio il racconto della giovane, turbato disse:

- Ormai quello che è stato, è stato! - la confortò - non pensarci più. Ora sai cosa faremo?! Andremo in cerca di un alloggio per riposare questa notte e, domani mattina, mi metterò in cerca di un lavoro. Ho due braccia robuste e vedrai che il pane non ci mancherà. Quando poi avrò fatto un po' di soldi, ritornerò da mio padre e gli chiederò il perdono e la sua benedizione ... - e, occhi negli occhi, aggiunse - per noi due.  

- Se è questa la tua volontà - aggiunse la ragazza - anch'io potrò aiutarti cominciando a tessere per la gente del tuo paese. Solo così potrò ripagare la tua bontà e generosità. - Poi, con molta famigliarità - Tu come ti chiami?

- Giustino! E tu?

- Aurora!

- Aurora?! Proprio un bel nome! 

Si erano appena incontrati eppure avevano l'impressione d'essersi conosciuti da sempre... Amore?!

Camminavano l'uno accanto all'altra, felici, nonostante tutto e, quandeppiglia trovarono fuori dal paese una casetta sperduta e disabitata.

- Che ne dici, Aurora? - propose il giovane. - Ci fermiamo qui? Domani andrò in paese in cerca di lavoro e cercherò il padrone di questa casa per  chiedergli di darcela in fitto.

Così trascorsero lì la notte.

L'indomani mattina, alla prima campana, Giustino si recò in paese lasciando Aurora a dare una sistemata alla casa.

Bisogna sapere che, quando il capo-mercante cedette la giovane, gli altri soci malfattori, anche se intascarono la loro parte, non erano del tutto d'accordo. Perciò decisero di tenere sotto controllo i due. Quando videro che Giustino si allontanava lasciando la fanciulla sola in quella casa sperduta, irruppero nel rifugio, piombarono sulla ragazza inerme, la imbavagliarono, la legarono, la misero in un sacco e, con la loro barcaccia ormeggiata nel vicino porto, presero velocemente il largo.

Aurora piangeva, si dimenava e pensava:

- Nessuno ha visto! Nessuno potrà riferire! Sola con questi malintenzionati! ... Oddio... e Giustino? Cosa penserà? Cosa farà? Giustino, Giustino... - singhiozzava e pensava - Meglio sarebbe stato non incontrarti mai, mio bel Giustino! Meglio sarebbe stato morire senza sapere della tua esistenza!

E la nave, sul mare a tavola, correva sinistra verso porti sconosciuti!

Quando Giustino tornò alla casetta e la trovò vuota, intuì che doveva essere accaduto qualcosa di terribile. Cominciò a chiamare la fanciulla con quanto fiato avesse in gola correndo per la campagna... correva e gridava, correva e gridava.

Quando, a ventiquattr'ore, giunse in riva al mare, si abbandonò esausto e scoppiò in un pianto. 

Piangeva a dirotto e quando una mano amica si posò  sulla sua spalla, si spaventò. Subito sollevò la testa e vide un uomo accanto a sé: mai visto prima, ma stranamente familiare. 

- Buon giovane, - parlò lo strano personaggio - perché piangi e ti disperi? - e aiutandolo ad alzarsi - Abbi fiducia! Io ti darò tutto l'aiuto di cui hai bisogno!

Il giovane, che aveva perso ogni cosa, nel sentirsi confortato, ritrovò la strada  della speranza e si confidò... Disperazione, timori, desideri e fiducia in un futuro pieno d'amore, diventarono gli ingredienti del racconto che fece a quella voce amica.

- Povero ragazzo! - lo consolò il vecchio alla fine del racconto. - Tanto buono eppure tanto sfortunato! Non temere, stasera riposerai nella mia barca e domani ci metteremo alla ricerca della tua fanciulla... di Aurora.

Il giovane si sentì confortato e quella notte riposò tranquillo, cullato dalle onde del mare.

L'indomani, quando si destò, il sole era già alto nel cielo e la barca, in alto mare, scivolava tranquilla.

Remarono... remarono e, infine, approdarono presso una spiaggia sconosciuta. 

Saltarono sulla battigia e cominciarono a camminare.

Cammina... cammina... Cominciavano a disperare, quando videro in lontananza una casa. Affrettarono il passo e, quando vi giunsero, picchiarono alla porta con disperazione.

Venne loro ad aprire una vecchina che, nel vederli così stanchi ed affamati, li fece entrare in casa sua perché si ristorassero.

Quando i due, dopo aver mangiato, si sentirono più in forze:

- Buona nonnina, non ci sarebbe per noi due da lavorare da queste parti? - Chiese il vecchio. - Potremmo lavorare i campi: io con la mia esperienza, lui con la sua gioventù!

- Per la verità, - disse la donna - il padrone di queste terre va in cerca di uomini per i suoi campi. Gli parlerò e, sono sicura, vi darà lavoro. Per stanotte potrete riposare nella stalla.

E così fu.

L'indomani i due uomini furono assunti come contadini di quelle terre e cominciarono a lavorare sodo dalla prima campana fino a due ore di notte.

Il tempo passava ed essi lavoravano, e nella stalla, la sera, si sdraiavano stanchi sulla paglia. Allora, senza l'impegno del lavoro, Giustino ricordava e si disperava: appoggiato al muro cantava la sua disperazione. Quel canto d'amore, triste e armonioso, incuriosiva la vecchina  che lo ascoltava rapita e commossa. Un giorno gli domandò:

- Bel giovane, perché canti questa canzone tanto triste? Devi essere veramente infelice!

Giustino, che trovava sollievo ogni volta che si confidava, raccontò alla donna il suo breve quanto infelice amore:

- ...era così bella e me l'hanno rapita! Le sue mani tessevano oro e argento per principesse e regine, ma ne ha ricevuto solo dolore! - Così concluse, amareggiato, la sua storia.

Quando la vecchia ebbe udito, rimase pensierosa, in silenzio, come meditando su qualcosa, poi...

- Non vorrei illuderti, buon giovane! - Cominciò timidamente. - Al palazzo, tra le schiave del padrone, ve n'è una, comprata da poco, che tesse oro e argento per la signora. Se vuoi, stanotte ti accompagno sotto la sua finestra.

Il giovane sentì il cuore battergli così forte e, frenando le parole, attese con ansia la notte. E la notte venne ed egli seguì la vecchina nelle tenebre, attraverso i campi, fin presso il palazzo.

La donna si fermò sotto una finestra e qui sussurrò al giovane di cantare la sua storia. Ed egli cantò con note accorate e col pianto in gola. Cantava e guardava disperato quella finestra. 

La finestra lentamente si aprì e.... Aurora!

- Aurora! Sogno ritrovato! Unica mia speranza! - gridò Giustino.

La vecchia non si era sbagliata! Era proprio lei, la fanciulla per la quale aveva tanto sofferto!

Piano piano, senza far rumore, Aurora, a piedi scalzi, attraversò sale e corridoi, e finalmente varcò la soglia del portone. Si rifugiarono l'una nelle braccia dell'altro e, sempre guidati dalla buona vecchina, attraversarono i campi e raggiunsero il vecchietto.

In preda all'ansia e alla felicità, il giovane lo scosse, lo svegliò e lo implorò di riprendere il mare con la barchetta e di riportarlo al suo paese.

Salutarono la buona vecchia e... via... verso altre spiagge. La barca, come se fosse consapevole della situazione, prese a volare sul placido mare.

I due giovani, stanchi e felici, si addormentarono, cullati dal ritmo cadenzato dei remi. Dormirono abbracciati, mentre il vecchio vegliava su di loro.

Si svegliarono che il sole era alto nel cielo; la barca era ormeggiata e... 

- E il vecchio?

Il vecchio dov'era finito?

In un angolo della barca, accanto ai remi, scorsero un fagotto. Giustino allungò la mano e lo prese. Lo aprì e... oh, meraviglia!

- Monete d'oro! - dissero insieme i giovani, guardandosi negli occhi.

I due rimasero esterrefatti e increduli, poi abbassarono lo sguardo e, nel luccichio dell'oro, scorsero un biglietto. Il giovane si affrettò ad aprirlo e lesse:

«

biglietto».

Le mani gli tremavano!

Poi, rivolto alla fanciulla, disse:

- Scendiamo! Quel caro vecchio non tornerà più! Prendiamo le monete d'oro e andiamo da mio padre a chiedergli perdono e a sollevarlo dalla sua miseria!

I due giovani, col vecchio padre, vissero, per tanti anni ancora, ridenti e contenti.

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Calzolaio e muratore 

La storia del calzolaio e del muratore

C'era una volta un muratore ed un calzolaio, i quali erano assai poveri. Questi, non trovando lavoro nel loro paese, stabilirono di emigrare in uno vicino, a patto che dovessero dividersi il guadagno che avrebbero ricavato dal proprio mestiere.

Giovanni che era il muratore, un giorno fu chiamato da un signore, il quale gli ordinò di fare, in un sotterraneo, quattro scompartimenti murati, in cui doveva mettere tutta la moneta che possedeva.

Il muratore lo accontentò. Quando terminò tutto, vedendo tanto danaro, pensò di asportarne una parte. E legatisi i calzoni sopra le scarpe, li empì di monete d'argento e d'oro, e si recò ad un altro paese. Entrato in un caffè per ristorarsi pagò il conto con un napoleone. Mentre si allontanava, fu chiamato dalla padrona che voleva dargli il resto, ma egli rispose che glielo lasciava per mancia, e per più mattine fece lo stesso.

La padrona un giorno, vedendo che quegli era ricco, gli disse: "Signore, volete in isposa una signorina che abita qui vicino?" Giovanni rispose di sì, e mandata l'ambasciata, la signorina accettò la di lui mano. Sposarono e vissero felici.

Un giorno egli si accorse che la moneta era per finire, ed allora disse alla moglie che doveva recarsi per un servizio urgente ad un'altra città.

Giunto al palazzo dov'era sepolto il tesoro, vide chiuso il portone.

Interrogò la gente del vicinato, e seppe che i padroni erano morti, e che lì dentro vivevano degli spiriti. Egli rispose che non si curava degli spiriti, e volle entrarvi. Ma gli fu detto che le chiavi le avevano le monache della Carità, alle quali il palazzo era stato lasciato. Giovanni si recò al convento e dichiarò che voleva visitare il caseggiato per acquistarlo.

Le monache che non osavano entrarvi per paura degli spiriti, furono liete di trovare un coraggioso compratore.

Quindi gli dettero le chiavi. Egli scese nel sotterraneo dov'era il tesoro, e si fornì di molto danaro. Tornato dalle monache disse che era pronto a stipulare il contratto per l'acquisto del palazzo, e se lo comprò.

Accomodato l'ammobigliamento per bene, andò a rilevare la moglie, e condusse seco anche la sorella di lei per vivere da gran signori nel nuovo palazzo.

Un giorno passò di lì l'amico suo calzolaio; Giovanni lo riconobbe e lo fece chiamare da un suo servo.

Quegli aveva vergogna di salire così mal vestito in un edificio sontuoso, ma l'altro lo pregò assai, e lo indusse a presentarsi dal suo ricco padrone. Il quale vedendo che non era stato riconosciuto dal compagno, volle giocargli uno scherzo, e gli ordinò di fare un paio di scarpe con un piccolo pezzo di cuoio che gli dette. Il calzolaio gli disse che non era possibile farle; ma l'altro insistette e finì coll'indurlo a lavorarle.

Dopo aver tagliato il tomaio e le suole vide che non gli riuscivano, ma tanto s'industriò che alla fine le scarpe furono ultimate.

Allora Giovanni chiamò la cognata e gliele fece calzare. Poi voltosi all'amico gli disse: "Fortuna per me, e fortuna per te; io sono il tuo vecchio compagno muratore; questa è mia moglie, e quest'altra sarà la tua". Così dicendo gli presentò la cognata.

Il calzolaio rimase trasecolato a sentire ciò; riconobbe l'amico e lo abbracciò; poi lo ringraziò di tanta generosità, e sposò la di lui cognata, con la quale visse contento e felice.

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