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ORCHI

TREDICINO MALANDRINO 

C'era una volta una famiglia contadina poverissima con dodici figli. Come se non bastasse, ne arrivò un altro. I fratelli non lo volevano; erano già troppi. Il padre era preoccupato: come avrebbe sfamato una figliolanza così numerosa? Ma gli apparve una fata e disse:

«Abbi fede, questo figlio sarà la tua fortuna. Lo chiamerai Tredicino, proprio perché, il numero tredici è fortunato».

«Ma tu chi sei?»

«Io sono la Fede».

Così Tredicino nacque fatato. Ma i suoi fratelli non lo sapevano e continuavano a non amarlo e a non volerlo. Quando fu cresciuto un poco lo portarono con loro a lavorare nel bosco, con l'intenzione cattiva di disfarsene. Infatti lo abbandonarono legato a un albero e andarono via.

Ma venne la Fede e lo liberò, trasformando il bosco in legna da ardere, ben tagliata e accatastata. Tredicino tornò a casa e disse alla mamma: «Ho comprato la legna a chilo e mezzo chilo e tu vendila a quintali e mezzi quintali».

«Quanta abbondanza, quanta abbondanza!» esclamò la madre contenta. I fratelli, tornando, restarono esterrefatti nel trovare Tredicino e tutta quella provvista di legna che per loro era una vera ricchezza. Più ingelositi che mai, il giorno dopo portarono nuovamente con loro il fratellino fatato, ma lo buttarono in un pozzo per farlo morire. Ma venne la Fede che tramutò l'acqua in olio e salvò Tredicino e questi, tornato a casa, disse alla madre:

«Ho comprato l'olio a chilo e mezzo chilo e tu vendilo a quintali e mezzi quintali».

«Quanta abbondanza, quanta abbondanza!» ripetè la madre ancora più contenta. Ma i fratelli ne erano indispettiti. Decisero allora di portare con loro Tredicino a lavorare nei campi del Nannorchio che aveva bisogno di una squadra di mietitori. Era un lavoro molto pericoloso, data la natura selvatica degli orchi mangiatori di carne umana.

I Nannorchi avevano anche loro tredici figli che lavoravano alla mietitura insieme ai fratelli di Tredicino. La sera le due squadre dormivano nei lamioni della masseria, sopra la paglia. I figli del Nannorchio avevano in testa un berretto rosso. I fratelli di Tredicino e lui pure, un berretto verde. L'ultimo giorno della mietitura, Tredicino, mentre tutti dormivano, andò a spiare i Nannorchi e li sentì dire:

«Ormai il lavoro l'abbiamo finito. A mezzanotte scendiamo nel lamione e ammazziamo i tredici mietitori. Così non li paghiamo e domani li mangiamo». «Sì, ma come faremo a distinguerli dai nostri figli che dormono insieme a loro?» disse la Nannorchia.

«Semplice - rispose il marito - li distingueremo dal berretto verde».

Lesto come il vento, Tredicino tornò nel lamione e scambiò i berretti rossi con quelli verdi. Così quando a mezzanotte i Nannorchi, alla pallida luce della luna, scesero nel lamione e vennero ad ucciderli, senza saperlo uccisero i loro figli.

Immediatamente Tredicino svegliò i fratelli, li avvertì dell'accaduto e disse:

«Scappiamo».

Vista quella strage, tutti se la dettero a gambe levate. Solo Tredicino, più piccolo di tutti, rimase indietro, tanto che alle prime luci dell'alba era ancora sulla Murgia in vista della masseria del Nannorchio. Allora ebbe un'idea. Si fermò, si voltò indietro e, facendosi imbuto con le mani, gridò: «Zio Nannorchio, zio Nannorchio, te ne ho fatta una!»

Il Nannorchio aveva appena scoperto la strage dei suoi figli fatta da lui stesso e, furibondo, gli rispose:

«Tredicino malandrino,
mi hai mandato alla rovina,
tredici figli mi hai ammazzato.
Ma prima o poi ti acchiapperò».

«Cuzzù e cuzzù,
non mi acchiappi più!»

Gli rispose Tredicino facendogli marameo col pollice sul naso e scappando via di corsa.

Intanto il re aveva decretato che chi fosse stato capace di portargli l'anello che la Nannorchia aveva al dito, avrebbe avuto lauta ricompensa. I fratelli approfittarono per segnalare al re l'audacia di Tredicino nel beffare il Nannorchio. Il re allora gli ordinò di compiere l'impresa. Ma il ragazzo aveva paura e si mise a piangere. Gli apparve la Fede che gli chiese:

«Perché piangi?»

«Perché il re mi ha ordinato di portargli l'anello della Nannorchia, e io non so come fare».

«Tu diventerai una pulce e andrai a pungere la Nannorchia sul braccio e sulla mano, finché quella, infastidita, non si toglierà l'anello e lo poserà sul comodino. Allora tu lo prenderai e fuggirai».

Tredicino fece così e, diventato pulce, tanti piccoli morsi tirò alla mano e all'anulare della Nannorchia che quella, col dito gonfio, fu costretta a togliersi l'anello e a posarlo sul comodino. Veloce come il vento Tredicino l'afferrò e fuggì. Ma giunto sulla Murgia si voltò e, con le mani a imbuto, di nuovo gridò:

«Zio Nannorchio, zio Nannorchio te ne ho fatta una, e te ne ho fatta due». Uscì il Nannorchio come un indiavolato e gli urlò:

«Tredicino malandrino,
mi hai mandato alla rovina,
tredici figli mi hai ammazzato,
l'anello d'oro mi hai levato.
Ma prima o poi ti acchiapperò».

«Cuzzù e cuzzù,
non mi acchiappi più!»

E facendo ancora una volta marameo, Tredicino fuggì lontano, portò l'anello al re e ne ebbe lauta ricompensa.

«Quanta abbondanza, quanta abbondanza» esclamò sua madre.

Ma i fratelli erano morsi dall'invidia. Il re chiese ancora a Tredicino di portargli la chioccia coi pulcini d'oro che possedevano i Nannorchi. Tredicino tremava al pensiero della nuova impresa, i fratelli lo costringevano a tentare. Gli apparve la Fede e gli disse:

«Diventerai uccello e volerai fino al pollaio. Porterai con te del granello e chiamerai al becchime i pulcini e la chioccia. Essi accorreranno tutti insieme, ne mangeranno e tu delicatamente li potrai prendere e mettere in un sacco. Così, mentre il Nannorchio dorme, tu potrai portarli via».

Così fece Tredicino. Penetrato nel cortile, dove le galline razzolavano, sparse in terra il granello e fece:

«Purr-purr, purr-purr, purr-purr, purr-purr».

Accorsero i pulcini golosi di quel cibo e con loro la chioccia. Delicatamente ma rapidamente Tredicino li prese, li mise nel sacco e scappò via. Dall'alto della Murgia gridò:

«Zio Nannorchio, zio Nannorchio te ne ho fatta una, te ne ho fatte due, te ne ho fatte tre».

E il Nannorchio adirato gli gridò dietro:

«Tredicino malandrino,
mi hai mandato alla rovina, 
tredici figli mi hai ammazzato,
l'anello d'oro mi hai levato,
la chioccia coi pulcini d'oro mi hai rubato.
Ma prima o poi ti acchiapperò».

Cuzzù e cuzzù,
non mi acchiappi più!»

E scappò facendo marameo.

Anche stavolta il re, ammirato dalla furbizia di Tredicino, lo ricompensò con un gran premio e gli chiese ancora la catena d'oro che la Nannorchia portava appesa al collo.

Ancora una volta la Fede gli apparve e gli disse di diventare una mosca e di andare a ronzare sul collo della Nannorchia fino a quando quella, infastidita, non si fosse levata la collana. Tredicino così fece.

Ma la Nannorchia, invece di togliersi la collana, provò più e più volte ad acchiappare il noioso insetto. Fino a quando ci riuscì e, presolo fra le dita, gli disse:

«Sei bestia o sei anima di cristiano? Perché io ora ti schiaccerò». «No, no io sono Tredicino».

«Ah, finalmente nelle nostre mani!»

Chiamò subito il marito e insieme gli dissero sghignazzando:

«Ora ti faremo ingrassare perché sei troppo piccolo, e poi ti mangeremo coi nostri parenti Orchi».

Lo rinchiusero in una botticella e lì lo tenevano all'ingrasso senza lavorare e facendolo mangiare molto. Ogni tanto la Nannorchia gli chiedeva di mostrarle un dito per vedere a che punto era.

Ma Tredicino in quella botticella aveva trovato la codina di un topo e la mostrava alla Nannorchia che, avendo un occhio solo, ci vedeva poco e scambiava quella codina per un dito troppo magro di Tredicino. Così non lo ammazzava, in attesa che ingrassasse un po'. Ma un brutto giorno Tredicino perdette la coda di topo e dovette mostrarle il dito.

«E' pronto per essere arrostito» sentenziò la Nannorchia.

E il marito andò ad invitare certi loro parenti Orchi che abitavano in un paese vicino, lasciando alla moglie l'incombenza di accendere il fuoco. Ma era finita la legna e la Nannorchia si mise a spaccarla con l'accetta. Allora Tredicino ebbe un'idea:

«Se mi liberi almeno un braccio - disse - te la spacco io la legna. Tanto lo so che devo morire. Ormai sono rassegnato».

La Nannorchia gli credette e gli liberò il braccio. Tredicino con quello prese l'accetta e cominciò a dar colpi sulla legna. Dopo un po' fece: «Con un braccio solo mi stanco e posso lavorare poco. Liberami anche l'altro, tanto la mia sorte è segnata».

La Nannorchia glielo liberò. Dopo un po' lui riprese:

«Ho le ginocchia dolenti. Se mi fai uscire ti taglio tutta la legna in quattro e quattr'otto e poi ritorno qua dentro».

La stupida Nannorchia gli credette e lo fece uscire. Tredicino si mise di buona lena a spaccare legna. Ma con la coda dell'occhio osservava i movimenti della Nannorchia per cui, non appena quella si voltò di spalle, con un rapido fendente dell'accetta, le mozzò il capo di netto.

Poi pensò a nascondere il tutto per il ritorno del Nannorchio. Il corpo lo buttò in un pozzo e la testa la mise nel letto. Sotto le coperte sistemò un barilotto pieno d'acqua in modo che sembrasse il corpo tozzo e panciuto della Nannorchia. Poi fuggì.

Tornò il Nannorchio e si meravigliò di non trovare ancora il fuoco acceso. Cominciò a imprecare contro sua moglie poltrona e scansafatiche, specie quando la vide nel letto ove sembrava tranquillamente addormentata. «Alzati vieni a preparare, che fra poco arrivano gli ospiti. Ah, nemmeno mi rispondi? Ti faccio vedere io!»

Prese un grosso bastone e cominciò a suonargliele di santa ragione. Picchiava tanto forte che dopo un po' il barilotto cominciò a fessurarsi e a far uscire l'acqua. Ancora più irato, lo stupido bestione gridò:

«Ah, adesso fai anche la pipì a letto, brutta sporcacciona, alla tua età. Vuoi pisciare? E allora piscia, piscia veleno, piscia veleno amaro!»

E giù botte da orbi. Tante gliene dette che il barilotto andò in pezzi e la testa della Nannorchia rotolò sul pavimento. Solo allora il Nannorchio si rese conto che quella era opera di Tredicino.

Anche perché dall'alto della Murgia si sentì di nuovo la sua voce che diceva:

«Zio Nannorchio, zio Nannorchio te ne ho fatta una, te ne ho fatte due, te ne ho fatte tre, te ne ho fatte quattro».

«Tredicino malandrino,
mi hai mandato alla rovina,
tredici figli mi hai ammazzato,
l'anello d'oro mi hai levato,
la chioccia coi pulcini d'oro mi hai rubato,
la testa di mia moglie hai tagliato.
Ma prima o poi ti acchiapperò».

Cuzzù e cuzzù,
non mi acchiappi più!»

E scappò facendo marameo.

Intanto, con tutto il denaro avuto in premio dal re per le sue gesta contro il Nannorchio, Tredicino si comprò mulo e traino e diventò trainiere. Schioccava la sua frusta con la punta rossa e cantava allegramente mentre trasportava i suoi carichi. Ma pensava sempre a come fare per vincere definitivamente il Nannorchio.

Così una notte, caricata sul traino una grande cassa di chiodi, passò vicino alla casa di Nannorchio cantando e schioccando la frusta, com'era sua abitudine.

Il Nannorchio lo sentì e lo chiamò:

«Trainiere, dove vai con questo carico?»

«Vado al paese di Tredicino» rispose contraffacendo la voce e calandosi il berretto sulla fronte, per non farsi riconoscere.

«Se mi porti con te, ti do tanti soldi».

«E come faccio. Non ho posto. Il traino è occupato da questa grande cassa di chiodi. Se vuoi posso chiuderti dentro».

«Sì, sì accetto, purché mi porti nel paese di Tredicino».

«Ma ti pungerai».

«Non importa. Qualunque sacrificio, pur di arrivare ad acchiappare quel malandrino».

Tredicino rideva sotto i baffi e si calava sempre più la coppola sugli occhi per non farsi vedere bene dall'unico occhio dell'orco, mentre questi saliva sul carro.

Così lo chiuse dentro la cassa dei chiodi e riprese il suo cammino, scegliendo la strada più lunga e più sconnessa. Ad ogni sobbalzo il Nannorchio faceva:

«Ahi, ahi!»

e Tredicino:

«Ti fa male? Se ti fai male dillo che ti faccio scendere».

«No, no, non importa tu pensa solo a portarmi al paese di Tredicino». «Ma la strada è lunga».

«Fosse pure in capo al mondo, ci andrei lo stesso».

Cammina cammina, cammina cammina, il Nannorchio, punto da tutte le parti, perse tanto sangue che morì dissanguato. Allora Tredicino andò dritto dritto alle guardie del re e lo consegnò, ormai innocuo.

Il re decretò che tutte le ricchezze del Nannorchio passassero a Tredicino che aveva liberato la contrada da un simile mostro, e Tredicino, ormai ricco, perdonò i fratelli invidiosi, si riconciliò con loro e tutti vissero ricchi e contenti. 

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Le tre vesti

C'era una volta un marito, una moglie e una figlia. La moglie morì e lasciò un "ricordino" (dono) in un comodino.

Un giorno la figlia, che ormai era grandicella, trovò il ricordino e tutta contenta corse dal padre.

- Lo sai cosa ha detto tua madre quando era ancora viva? - interruppe il padre - A chi va quel ricordino, quella ti devi sposare! -

Ora, per rispettare la volontà della madre le toccava sposare il padre! La povera figliola non poteva pensarci di sposare il padre. Chiusa nella sua stanzetta, piangeva tutta la notte e pregava la Madonna Addolorata di evitare quel matrimonio.

La Madonna le apparve:

- Di' a tuo padre: se mi vuoi sposare mi devi fare una veste -quante-stelle-stanno-in-cielo-e-pure-la-luna-e-il-sole-in-faccia.

La mattina, sollevata, la fanciulla rispose alle insistenza del padre come le aveva detto la Madonna:

- Se mi vuoi sposare devi farmi una veste -quante-stelle-stanno-in-cielo-e-pure-la-luna-e-il-sole-in-faccia.

- Questo è tutto? - soggiunse il padre.

Ora il balcone della casa dava sul mare e in quel posto stavano i diavoli. Affacciato al balcone il padre gridava:

- Diavoli, diavoli... -

- Cosa vuoi? - chiesero i diavoli.

- Mi dovete fare una veste -quante-stelle-stanno-in-cielo-e-pure-la-luna-e-il-sole-in-faccia. Se sposo mia figlia l'anima mia ve la prendete voi.

- Questo è tutto'? Domani la veste sarà pronta!

Così fu.

- Questa è la veste, quando ci dobbiamo sposare? - chiese il padre alla ragazza.

Rosinella, così si chiamava, prese la veste, la stese sul letto e per tutta la notte piangeva e pregava la Madonna. La Madonna l'ascoltò:

- Rosinella, non ti addolorare; dì a tuo padre che se ti vuole sposare deve farti un'altra veste quanti-pesci-stanno-a-mare-e-pure-l'arco di balena-in-faccia.

La ragazza, rassicurata, riferì al padre.

Questi si mise di nuovo al balcone e gridò:

Diavoli, diavoli... fatemi una veste -quante-stelle-stanno-in-cielo-e-pure-la-luna-e-il-sole-in-faccia.

Detto, fatto.

- La veste è pronta - disse il padre - quando ci sposiamo?

La ragazza prese la veste, la stese sul letto e piangeva per tutta la notte e pregava la Madonna.

Anche sta volta la Madonna l'ascoltò:

- Rosinella, non piangere; dì a tuo padre che, se ti vuole, un'altra veste deve farti, una veste-a-campanelli-d'oro-e-brillanti.

Così fece e, per la terza volta i diavoli esaudirono la richiesta.

Ora non c'erano più scuse e Rosinella piangeva disperatamente nella sua stanza.

Venne di nuovo in soccorso la Madonna:

- Questa volta dì a tuo padre che se ti vuole deve esaudire quest'ultimo desiderio: deve comprarti due colombi. Domani, poi, il giorno fissato per le nozze ti metterai in

un bacile d'acqua e farai credere a tuo padre che ti stai sciacquando; ti dirò cosa dovrai fare.

Il giorno delle nozze era giunto e Rosinella fece esattamente come le aveva detto la Madonna.

Il padre era convinto che la figlia si stesse lavando e attese, attese invano.

La Madonna, infatti, come aveva promesso, era venuta a prendere Rosinella e l'aveva portata in un pagliaro in campagna e qui l'aveva trasformata in vecchia.

- Me l'hai fatta e me l'hai saputa fare!!! - esclamò il padre quando, sfondata la porta, ebbe visto i due colombi sguazzare allegramente nel bacile d'acqua.

Cadde a terra morto per la rabbia e i diavoli vennero e presero la sua anima.

La ragazza-vecchia intanto stava nel pagliaro e la Madonna spesso veniva a trovarla.

Una mattina Rosinella udì dei cani abbaiare, erano i cani di un principe che andava a caccia. Il principe, incuriosito dai suoi cani che continuavano ad abbaiare, scese da cavallo e andò a vedere.

- Cosa fai tu qui? - chiese alla vecchia.

- Faccio il guardapagliaro.

Dopo quel giorno il giovane tornò più volte nella zona e finì per convincersi che era la donna giusta da proporre alla madre per accudire le sue galline, giacché quella che c'era non la soddisfaceva. Così fece. Il principe accompagnò la "vecchia" dalla madre e poi le mostrò il gallinaro, facendole le dovute raccomandazioni.

Ogni mattino, ben di notte, la "vecchia" si presentava alla padrona con un bel paniere pieno di uova fresche e la padrona era molto felice.

Ora un bel giorno il re di quel paese organizzò una festa e tutti, principi e cavalieri, erano invitati e anche il giovane principe decise di parteciparvi.

La "vecchia" incuriosita dai preparativi si accostò al principe per chiedergli dove andasse e questi, per tutta risposta, le tirò dietro la scopetta con cui stava spolverando le scarpe. Sconsolata per la sua triste sorte Rosinella si ritirò nella sua stanza e si mise a piangere.

In quel momento le apparve la Madonna che le promise di portarla alla festa. La trasformò in una bellissima ragazza e le disse di indossare la veste-quante-stelle-stanno-in-cielo-e-pure-la-luna-e-il-sole-in-faccia. Fuori una bellissima carrozza dorata l'aspettava per condurla al palazzo del re.

Quando il giovane principe la vide, rimase affascinato e si chiedeva chi potesse essere... sicuramente una forestiera. Presto se ne innamorò e ballando le chiese di dove fosse. La ragazza rispose:

« Balla se vuoi ballare

la mia terra non puoi comprare;

il mio paese è menascopetta»

e se ne andò. Il principe corse per inseguirla, ma la carrozza scomparve in una nuvola di polvere. Giunta al gallinaro la ragazza riprese la scorza di vecchia.

Il giorno dopo la "vecchia" si divertiva a stuzzicare il giovane innamorato e questi, per la rabbia le tirò dietro un bacile.

La festa continuava e la seconda sera Rosinella indossò la veste-quanti-pesci-stanno-a-mare-e-pure-l'arco di balena-in-faccia.

Il principe, pazzo d'amore, le chiese ancora di quale paese fosse e la ragazza rispose:

« Balla se vuoi ballare

la mia terra non puoi comprare

il mio paese è menabacile»

Il Principe s'insospettì e fu più che mai attento a inseguire la carrozza. Ma la carrozza scomparve in una nuvola di polvere.

Il giorno seguente il principe sconsolato si stava sfogando con sua madre, quando sopraggiunse la "vecchia" col solito paniere pieno di uova fresche. Al suo fare allusivo il principe, per la stizza, le rispose tirandole dietro una bacchetta.

Per la terza sera Rosinella si presentò al ballo ancora più bella col suo vestito-a-campanelli-d'oro e-brillanti e anche questa volta rispose alle insistenze del principe col solito ritornello:

« Balla se vuoi ballare

la mia terra non puoi comprare

il mio paese è menabacchetta»

Il principe sempre più sconcertato, poiché era l'ultima sera, aveva deciso di regalarle una fede per ricordo, sperando di avere il suo consenso. Ma, come le altre sere, la donna e la sua carrozza scomparvero in una nuvola di polvere.

Al gallinaro riprendeva la scorza di vecchia.

La mattina seguente il giovane principe era più che mai pazzo d'amore e non aveva la minima forza di alzarsi dal letto. La madre cercava di consolarlo, ma inutilmente. Il giovane espresse il desiderio di una pizza.

- Sì, volentieri - rispose la madre.

In quel momento entrò la "vecchia" con la cesta delle uova e chiese notizie del giovane. La riferì che quel giorno il figlio non voleva vedere nessuno, desiderava solo una pizza.

- Signora, la voglio fare io! - interruppe la "vecchia".

- No, mio figlio è troppo nervoso oggi e se dovesse trovare qualche penna di gallina nella pizza sarebbero guai.

La vecchia insistette: - Mi laverò bene le mani -. E dopo ulteriori insistenza finì per convincere la padrona.

La vecchia si lavò per bene le mani e cominciò ad impastare la pizza. Quando fu pronta si sfilò l'anello e lo mise in mezzo alla pizza.

La pizza uscì dal forno, la madre la portò al figlio e se ne andò. Nel tagliarla il giovane trovò l'anello. Ancora più confuso e fuori di sé, il principe chiamò ad alta voce:

- Mamma, mamma!

La povera donna pensò subito che qualche penna di gallina fosse capitata nella pizza e si pentì di essersi fidata della vecchia.

- Cosa è successo? - chiese.

- Devi dirmi chi ha fatto la pizza! - non disse niente dell'anello.

- Sono stata io con le mie mani. C'è qualcosa che non va?

- No, devi dirmi la verità, se no mi ammazzo.

La donna, messa alle strette, confessò:

- L'ha fatta la gallinara.

- Adesso la devi chiamare: mi deve dire dove sta la ragazza che cerco.

- Cosa vuoi da lei, è una povera vecchia, si è lavato pure le mani.

La donna disperata temeva che il figlio, accecato dall'ira, potesse uccidere la vecchia e intanto la chiamò.

La ragazza-vecchia si presentò dal signorino.

- Tu esci fuori - disse questi alla madre - voglio parlare da solo con lei.

- Mi devi dire chi ha fatto la pizza se no ti ammazzo!

- Se te lo dico - replicò la ragazza-vecchia - cosa le fai?

- La voglio sposare.

- L'ho fatta io - ribadì.

Il Principe prese l'accetta e la brandì minacciosa contro la vecchia.

In quel momento cadde la scorza di vecchia ed apparve la bellissima fanciulla che amava.

- Mamma - urlò il signorino.

- L'ha uccisa - pensò sconvolta la madre. E salì rapida le scale e, con suo grande stupore, si trovò davanti la bellissima fanciulla.

- Questa è la donna che mi ha fatto impazzire!

La ragazza raccontò tutta la sua storia e il giorno stesso furono decise le nozze, che si celebrarono con grandi festeggiamenti.

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  MOLLICA 

Mollica

    C'era una volta un piccolo contadino, figlio di contadino e nipote di contadino, che si chiamava Mollica. 
     Mollica odiava la zappa come il fumo negli occhi, gli sarebbe piaciuto vivere senza lavorare e...  le tentò tutte per riuscirci, ma... 

Mollica un bel giorno,  tornando da scuola, al padre contadino disse che non voleva studiare perché voleva trovare un mestiere dove non si lavorava. 

- Ma prima è meglio che ti istruisci - accennò saggiamente il padre.

- No, voglio fare il calzolaio - e insistette tanto che il padre lo accompagnò da un suo amico calzolaio perché lo avviasse al mestiere.

Erano passate alcune ore? O forse minuti? Insomma poco dopo Mollica si ripresentò dal padre e piangendo gli urlò che quel mestiere non prometteva nulla di buono perché era fatto per chi voleva lavorare.

- Ma per vivere bisogna... - tentò di ribattere il padre.

- ... e io non voglio! -  pestò deciso il piede sul pavimento e le parole nell'aria.

Il padre, troppo buono, anche questa volta chiese cosa voleva fare e anche questa volta Mollica, senza pensarci due volte, decise: 

-Voglio fare il sarto!

Fece il sarto per altri pochi minuti. Per altri pochi minuti fece il falegname e - chissà cos'altro avrebbe voluto fare se avesse avuto un po' di fantasia - alla fine accondiscese, sicuro di non voler tornare a scuola, a fare il contadino.

La vita di Mollica scorreva monotona, giorno dopo giorno: il lavoro stancava e Mollica imprecava. 

Era diventato grande quando gli morì il padre. Dopo i primi pianti e alcuni giorni, gli ritornarono in mente i vecchi sogni: vivere senza lavorare. Si convinse a tal punto di poter campare senza lavorare che si decise ad andare in cerca di fortuna. 

Un giorno appese ad un albero la sua zappa, e le sparò contro un colpo di fucile. Dopo prese un sacco di polvere, un altro di pallini, e col fucile sulle spalle si mise in viaggio. 

Camminò giorni e giorni per pianure e per monti, attraversò campi e boschi, e dopo avere consumate le provviste di polvere e di pallini, cadde nella più nera miseria. E la Fortuna? 

Ridottosi agli estremi e sfinito, stava per ammazzarsi, 


quando vide lontano una torre che sorgeva in mezzo ad un folto di alberi. Nella speranza che potesse finalmente rintracciare la sospirata Fortuna, si trascinò fino a quella torre e, trovata la porta aperta, vi entrò. 

Era proprio la torre della Fortuna! Con sua meraviglia vide che nella prima stanza c'era un mucchio di monete d'oro. Sgranò gli occhi per la gioia, e senza perdere tempo si buttò sul mucchio per impossessarsene, ma... 

Proprio allora una voce, la Fortuna, gli trattenne il braccio e gli disse: "Non è roba tua, e non puoi toccarla". Rimase mortificato e deluso, e dopo un po' di esitazione passò nell'altra stanza.

Qui vide un altro mucchio di monete d'argento, più grande del primo. Subito s'affrettò per farsene una provvista, ma immediatamente sentì la voce che lo bloccò. Rammaricato  passò nell'altra stanza e cosa c'era? Una zappa. Giganteggiava su tutto. Come la vide, si turbò e volse il capo altrove, ma la voce gli disse: "Mollica, prendi quella zappa, scava profondamente il terreno, e troverai la fortuna che cerchi".

Egli prese a malincuore la zappa, a malincuore se ne tornò al suo paese, a malincuore si mise a zappare la terra, a malincuore seminò e, quando giunse l'epoca del raccolto, la gioia pareggiò i dispiaceri precedenti. Vendette il raccolto e guadagnò molto denaro. Allora capì il valore del consiglio datogli dalla Fortuna, e si convinse che il padre aveva ragione "Bisogna lavorare per mangiare" e, magari, diventare ricco. 

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LA CIVETTA E LA VOLPEVolpe

Una volta una civetta seminò con la comare volpe un tomolo di biada. Quando giunse il tempo della trebbia, la volpe, maliziosa, disse alla compagna: "Comare, dividiamoci il raccolto da buone amiche e facciamo così: la biada a me, e la paglia a te".

Ma la civetta che aveva capito l'inganno della volpe, non accettò: "Allora facciamo così - propose l'astuta - la paglia a te e la biada a me". Quella non sapendosi decidere, andò dal cane per chiedergli un consiglio. Egli rispose: "Comare civetta, non ti fidare di quella imbrogliona, perché pretende la parte migliore; sentimi: io mi nascondo, e quando state trebbiando, mi getto sulla volpe, me la mangio e in tal modo tu diventi padrona della biada e della paglia".

Così fecero. Ma la volpe appena vide il cane, cominciò a fuggire come il vento; però la coda molto lunga non le permetteva di scappare con facilità; tuttavia inseguita dal cane arrivò alla sua tana, e cominciò a dire: "Siate benedette, o mie amiche, che m'avete aiutato; ma tu esci fuori, brutta coda, perché mi hai ostacolato nella fuga".

Nel dire così mise fuori dalla porta un po' di coda, e ripetette diverse volte questa operazione.

Il cane, che era già arrivato, quand'ella aveva messo fuori un bel pezzo di coda, l'azzannò, e tiratala a viva forza se la mangiò.

Così compare cane ebbe la volpe, ed a comare civetta spettò la biada e la paglia.

Essi rimasero felici e contenti,

Ed io che te la narro, non seppi più niente.

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Mestieri artigianali

Un ragazzo svogliato 

C’era una volta un ragazzo assai svogliato. Un giorno disse al padre: "Non voglio andare più a scuola, ma intendo fare il calzolaio". Il padre acconsentì.  Poco tempo dopo si punse un dito e, tornato a casa, disse: "Babbo non voglio fare più il calzolaio". "E che intendi fare?" domandò il padre. "Voglio imparare l'arte del sarto". "Imparala pure".

Un giorno, mentre cuciva a macchina, gli capitò un dito sotto l'ago. Come pianse e piangendo disse che non voleva fare più il sarto.
"E che arte vuoi fare?" esclamò il padre.
"Voglio fare il falegname".
"Fa pure il falegname".
Un giorno, mentre segava, si ferì un dito. Tornò dal padre e gli disse: "Babbo, io non voglio morire per il lavoro".
"Se non fatichi, non mangi".
E il figlio: "Non voglio mangiare, né lavorare".
"Vedremo!" concluse il padre.

Passò il primo giorno, passò il secondo, il terzo, il quarto… alla fine, sfinito dalla fame, il ragazzo, con un filo di voce, disse:
"Babbo, voglio mangiare!".

“Allora vuoi lavorare?”.

“Voglio lavorare!”

Il padre, con un malizioso sorrisetto, rispose:
"Prendi la zappa, allora, e vieni con me in campagna".
Da quel giorno il ragazzo si mise con la buona volontà a lavorare, e..., se vi trovate a passare, lo vedrete: vive, ancora, felice e contento.

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