TESTARE

GRILLO 

Era un uomo di campagna: viveva del suo lavoro: aveva passata la sessantina, era vigoroso nelle forze, un poco curvo per gli anni, ma nulla aveva perduto della sua indole faceta. Il suo nome era Grillo, ma il popolo lo chiamava Titò. Un giorno mentre era tutto intento a spaccare un tronco di ulivo per fare legna da ardere, gli si presentò un cacciatore. Lo riconobbe: era il re in persona. Subito lasciò da parte la scure e gli fece un profondo inchino.

- Salve, uomo di terra - gli disse il re che conosceva bene la sua lepidezza. - Buon giorno a voi, gloria di guerra - rispose il vecchio.

- La neve ai monti - riprese il re.

- E' il tempo che la porta.

Difatti il povero vecchio, per il continuo lavoro, si era incanutito innanzi tempo.

- Dimmi un po' - soggiunse il re - quanto al giorno guadagni per cotesto lavoro?

- Maestà un franco appena.

- E in che spendi cotesto franco?

- Ecco, Maestà. Cinque soldi li restituisco, venticinque centesimi li anticipo, altrettanti li butto via e il resto serve per i miei bisogni.

Il re si trovava di fronte ad un enigma: non sapeva darsi spiegazione e per quanto ruminasse su, non riusciva ad intendere il profondo significato di quel parlare. Ed allora soggiunse:

- Che cosa vuoi tu dire?

- Maestà, vi spiego ogni cosa. Il significato delle mie parole è semplicissimo. Ogni buon figliuolo deve sostenere i vecchi genitori che si sacrificarono per allevarlo e dargli una buona educazione, e perciò io restituisco loro quanto fecero per me nella mia fanciullezza. Ogni padre deve allevare con ogni cura i propri figli, se poi nella vecchiaia vorrà essere aiutato da costoro, e quindi io li anticipo per i miei figliuoli. Una parte io li butto in aria per nutrire e vestire mia moglie e con la quarta mi sostengo io.

- Bene - rispose il re -. Adesso ti proibisco di riferire ad altri quanto hai detto a me, tranne che non vedessi la mia faccia, altrimenti la morte ti sovrasta sul capo. Hai capito?

- Maestà, son sempre orgoglioso di essere ai vostri ordini: fin quando non vedrò la vostra faccia, a nessuno mai confiderò questo segreto.

Il re gli batté amichevolmente la mano sulla spalla in segno di benevolenza e di amicizia e fece ritorno al palazzo reale. La sera, trovandosi in mezzo a parecchi uomini di corte, disse:

- Godrà sempre la mia amicizia, chiunque di voi saprà sciogliermi questo enigma. Un contadino guadagna un franco al giorno: un quarto lo restituisce, un altro lo anticipa, uno lo butta via e l'ultimo serve per se.

I cortigiani si guardarono l'un l'altro, ma nessuno seppe dare alcuna spiegazione. Allora uno dei più scaltri disse:

- Maestà, ci dia almeno un giorno per riflettere!

Vi sia concesso - riprese il re - domani sera attendo una risposta.

Quando i cortigiani furono soli, si consigliarono sulla risposta da dare al re; ognuno cercava di dare una soluzione, ma nessuna sembrava soddisfacente.

Ma chi mai aveva potuto proporre al re quell'indovinello?

Sapevano che la mattina il re era stato a caccia, conoscevano anche l'arguzia del vecchio contadino, pensarono che quello certamente avrebbe potuto proporre al re l'enigma e s'intesero di andarlo a trovare l'indomani mattina. Difatti all'alba si avviarono per il bosco ove il contadino soleva passare la giornata nel lavoro. Benché il sole non fosse del tutto apparso sull'orizzonte e la neve dei monti rendesse più rigida la giornata, lo trovarono che conficcava una bietta nella fenditura di un tronco.

Sorridenti lo circondarono e con massima familiarità gli dissero:

- Buon Titò, sempre lavori?

- Eh, miei cari signori, il lavoro è il mio pane quotidiano e se non lavoro non mangio.

- Comprendo - disse uno dei cortigiani - ma così presto, con quella grossa scure dalla mattina alla sera, e dalli e dalli, la salute se ne va: sei abbastanza vecchio!!

- E come si fa? Ho ancora i miei diletti vecchioni da sostenere: la mia compagna attende alle faccende di casa, ho dei figliuoli cui debbo procurare da mangiare: e tutti poggiano sulle mie povere braccia. Eh, cari signori, si fa presto a dire: Sempre lavori! E' la necessità che mi spinge.

- A proposito, Titò - riprese un altro - tu ci devi spiegare quelle parole che dicesti al re ieri mattina.

- Quali parole?

- Quelle dell'uso che fai del franco che guadagni giornalmente.

- Ma se io neppure ho visto il re!

- Eh, via, il re ci ha detto che gliele dicesti tu: vuoi fare lo gnorri adesso?

- Sì, ma mi disse anche di non fiatare con nessuno.

Neppure a noi, che siamo suoi cortigiani fedelissimi e tuoi amici?

- Neppure a voi: ne va di mezzo la vita!

Che vita e vita! Senti, Titò, se ce lo dici, ti diamo cento scudi d'oro.

No, no, miei cari signori, la vita mi è più cara di cotesti cento scudi!

- Te ne daremo trecento, anche di più se vuoi.

- No, no, la mia vita è preziosa per i miei genitori, per mia moglie, per i figli, per me stesso.

Ebbene te ne daremo cinquecento e così potrai lavorare di meno, e potrai meglio soddisfare i tuoi bisogni e quelli della tua famiglia. Vedili come sono belli!

E in così dire gettò un pugno di monete d'oro sotto lo sguardo del vecchio.

- Titò sgranò gli occhi: mai aveva visto monete d'oro: un brivido gli corse per le vene, pensò che effettivamente avrebbe potuto sollevare le condizioni della famiglia, e che al re non gli poteva mancare qualche spiritosità da dire. Ed attirato dal luccichio di tant'oro, senz'altro spiegò l'enigma. I cortigiani pagarono i cinquecento scudi, ringraziarono il vecchio, ed allegri ritornarono alla Corte. A sera il re era curioso di sapere se i cortigiani avessero sciolto l'enigma, e, con aria spavalda, sicuro che non vi sarebbero riusciti, disse loro:

- Ebbene, che cosa mi sapete dire?

- Maestà, l'enigma è sciolto.

- Sciolto?

Sì, e dalla stessa persona dalla quale lo ha saputo Vostra Maestà.

- Da chi?

- Da Titò.

- Impossibile!

- Possibilissimo! Senta: Restituisce ai genitori, anticipa ai figli, butta via per la moglie ed il resto serve per i suoi bisogni.

- Ah! ma Titò me la pagherà cara, è stato un suddito infedele.

Tutta la notte il re, divorato dalla rabbia, non chiuse occhio.

Albeggiava appena, quando uscì dal palazzo reale e, spinto dal desiderio di far subito vendetta, divorò la strada. Trovò Titò al solito lavoro, e, senza neppur salutarlo:

Mostro d'un vecchio - gli disse - che cosa ti comandai l'altro ieri?

- Di non spiegare a nessuno quelle parole che dissi a Vostra Maestà, se prima non avessi vista la vostra faccia.

- Ebbene, sei stato fedele alla mia consegna?

- Fedelissimo, Maestà.

Vuoi prenderti ancora gioco di me? Ricordati che salirai il patibolo.

- Maestà, perché?

- E lo domandi? Perché hai manifestato tutto ai cortigiani senza che abbia visto la mia faccia.

- Se l'ho vista!!! E che faccia splendente, e non una volta, ma per cinquecento volte!

Ed in così dire, andò a prendere i cinquecento scudi e gli disse:

- Vedete Maestà, che volto splendente!

Il re si morse le labbra, domò l'ira e, ammirando la spontaneità e sveltezza di Titò, riprese:

- Non morrai, ma giacché mi hai fatto perdere la scommessa coi cortigiani, sarai relegato nel mio palazzo.

E Titò fu costretto a seguire il re al palazzo reale. Quivi fu adibito ai servizi più umili: mondava gli alberi delle brocche inutili nel parco; attendeva all'ordine del giardino; innaffiava i fiori, lavorava nella più profonda solitudine. Però di tanto in tanto il re l'onorava di qualche visita per passare in sua compagnia qualche quarto d'ora di allegria.

Una volta il re si presentò da lui col pugno stretto e gli disse:

- Titò, indovina che cosa stringo nel pugno.

Titò lo guardò fisso, si turbò e, lamentando la sua triste condizione, disse a se stesso: Grillo, Grillo, questa volta sì che sei capitato nelle mani del Sovrano!

- E grillo è, disse il re, aprendo il pugno e facendo saltellare sui fiori l'insetto ortottero.

Il re, credendo che veramente Grillo avesse indovinato che cosa teneva chiuso nel pugno, per premiarlo lo nominò buffone di corte. Ed ecco Titò, novello Rigoletto, vivere in mezzo ai cortigiani, mantenere allegra la compagnia con i suoi motti pungenti, con le sue arguzie, con la sua verve inesauribile. Tutti lo amavano e si dilettavano per spingerlo a novello brio. Ma una volta si volle divertire a mettere in burla una dama di corte: era la preferita del re. La dama riferì ogni cosa al sovrano domandando una riparazione. Il re si dispiacque e, novello Erode che per Salomè, anzi per Erodiade, sacrificò la testa di Giovanni Battista, dovette punire Titò per l'affetto che portava alla dama e lo condannò ad essere rinchiuso in un sacco e legato ad un albero sotto la custodia di una guardia. Erano passate parecchie ore e Titò non ne poteva più. I suoi gemiti e le grida risuonavano per tutto il parco reale. La guardia, mossa a compassione, gli domandò: - Titò, perché il re ti ha inflitto cotesto duro castigo?

- Perché non gli ho ubbidito.

- E che cosa desiderava?

- Che sposassi la figlia.

- E non potevi accontentarlo?

- Ma se ho moglie e figli!

- Hai ragione. E se mi mettessi io nel sacco, il re mi farebbe sposare la figlia?

E lo domandi? Sicuro che te la farebbe sposare, tanto più che sei giovane!

- Ebbene, facciamo cambio: ti sciolgo dall'albero, mi pongo in vece tua nel sacco e tu legami e fammi da guardia.

- Sarà la mia e la tua fortuna.

Sciolto che fu, Titò legò ben bene nel sacco e all'albero il compagno e corse dal re. Questi mostrò le più grandi meraviglie nel vederselo davanti e domandò come avesse fatto per sciogliersi. Titò narrò la spiritosa invenzione e ancora una volta il re ammirò la perspicacia del vecchio: commosso, gli diede una pingue borsa di monete d'oro e lo rimandò libero a casa. Titò aveva cambiata fortuna: non sentì più il bisogno di lavorare i campi o spaccar legna per sostenere la sua famiglia e visse il tramonto della sua vita in una perfetta agiatezza, circondato dall'affetto dei suoi cari.

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