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La ricchezza del lavoro 

La vecchiaia era di peso all'ottuagenario barone De Lucreziis, tanto più che con la perdita delle forze, parecchi acciacchi si erano presentati. Del resto, la stessa vecchiaia gli era una malattia. Trascorreva gran parte della giornata leggiucchiando o piuttosto facendosi leggere qualche libro o il giornale. Altre volte si trascinava col bastone nel suo giardino pensile per respirare un poco d'aria pura. Viveva nel triste ricordo di una vita passata in sollazzi e piaceri, in continui viaggi e godimenti leciti ed illeciti, fra il rispetto di quanti lo conoscevano ed il timore di quanti lo servivano.

Nella sua pinacoteca, il più delle volte, lo sguardo si fissava sui quadri dei suoi antenati, uomini illustri che si erano imposti alla comunità o si erano resi emeriti nelle arti e nelle scienze; grandi letterati che avevano fatto sfoggio della loro cultura sulle cattedre, o famosi oratori che avevano fatto tremare con la loro eloquenza le aule dei tribunali. E si compiaceva nell'ammirare tanta grandezza nella sua famiglia, ma poi pensava: Eppure tante celebrità sono scomparse, forse sta per scoccare la mia ora!

Ed allora quel senso di compiacenza lo abbandonava, ed un velo di tristezza cadeva sul suo cuore ed egli cercava distrarsi subito per vincere quella pesantezza di animo: chiamava qualcuno di famiglia o qualche amico per fare una partita a scacchi, dove volentieri trascorreva qualche ora; o, se erano in più, giuocavano a briscola o al preferito tressette, giuoco degli intellettuali, tanto per ingannare il tempo. Non mancava il fiaschetto di vino, fra partita e partita, tanto per mantenersi allegri e dimenticare la triste ora fuggente. Non rare volte si lasciava circondare dalle più nobili famiglie del paese che si gloriavano della sua amicizia e passavano le ore chiacchierando e ricordando qualche episodio antico, o parlando della politica contemporanea.

Dopo parecchie giornate piovigginose e umide, finalmente uscì il bel tempo.

Si era in novembre: il barone non era uscito da parecchio e, spinto dalla freschezza di una giornata soleggiata, sentì la voluttà di fare una passeggiata. Chiamò il suo fido cameriere e gli domandò:

- Vincenzo, il cocchiere è in casa?

- Sì, signor barone, lo vuole?

- Va a dirgli che attacchi il cavallo al biroccino, perché desidero fare una gita.

Dopo mezz'ora il ronzino scalpicciava davanti alla casa del barone, il quale non tardò a montare sul calessino. Uscito dalla città presero per la via di campagna. La strada solatia risaliva dolcemente verso un'ubertosa collina. Man mano che avanzavano, il barone si sentiva rinascere, respirava a larghi polmoni, mentre l'occhio si spaziava nell'immenso azzurro. Per meglio contemplare il panorama fece abbassare il soffietto del calesse.

Guardava a destra ed a manca e la vista di una grande attività di vita lo commoveva.

Mentre gli alberi rendevano alla terra le loro foglie ingiallite o appassite, la foglia della vite perdeva il suo verde cupo e si copriva di molte tinte: il contadino con la zappa squarciava la terra che usciva nera e fumante, piena di alito e di vita. Altri, curvi sulla stiva dell'aratro, aprivano dei solchi, mentre le femminette gettavano fra le porche le sementi. E così, mentre la natura si spogliava del vecchiume, l'attività dell'uomo preparava il terreno per farlo rinascere ad una vita novella e più ubertosa. Altri mondavano il mandorlo per spogliarlo del superfluo, alcuni raccoglievano le olive cascate per terra, o estirpavano qualche erbetta per darla in cibo alla pecora o ad altre bestiole. Il paziente asino girava il bindolo nei verzieri per attingere acqua ed innaffiare gli ortaggi.

Il barone ammirava tanto rigoglio di vita e si compiaceva nel vedere come l'umanità lavora e suda per guadagnarsi un tozzo di pane. Rendeva più gaia la sua gita il dolce ritmo di un ruscello che limpido scorreva da cucuzzolo della collina e scendeva come una verga d'argento attraverso la campagna. Il passerotto saltellava di frasca in frasca, la cinciallegra cinguettava mentre i colombi tubavano, il merlo chiocciolava, i tordi zirlavano, qualche pappagallo squittiva e la gazza dai riflessi metallici, andava trafugando oggetti brillanti. Il latrare del cane lo disturbava, mentre il nitrito di qualche puledro, che saltellava attraverso i campi, richiamava il suo sguardo. Né meno richiamavano la sua attenzione greggi di pecore o qualche mandria di buoi pascenti lungo il pendio della collina. Ed elevava il pensiero a Dio perché gli sembrava che tutta la Natura cantava le bellezze del Creatore. Mentre era assorto nella contemplazione di questo spettacolo imponente ed attraente, il suo sguardo si posò su di un contadino che stava aprendo una fossa. Quando gli fu vicino, per il desiderio di scambiare qualche parola con un uomo semplice di campagna e la curiosità di sapere cosa facesse, fece fermare il biroccino e con aria di bontà domandò:

- Che fai, buon uomo?

- Oh!, signor barone illustrissimo - rispose il contadino togliendosi subito il berretto - sto facendo una fossa.

- E che vi pianterai?

- Mi hanno donato un alberello di fico primitivo, ed ho pensato di trapiantarlo qui.

- Ci vorrà del tempo per portare il frutto, è piccolo abbastanza!

- Il fico cresce presto; è questione di cinque o sei anni. Pazienza ci vuole, signor barone, ma ogni tempo arriva. Se anche non dovessi gustare io il frutto, ci sono i miei rampolli. Del resto che il Signore mi faccia vivere e star bene.

- Eppure vorrei gustare il primo frutto di codesto albero!

- Se Dio ci darà vita, le prometto che le primizie saranno per lei. Il barone lo ringraziò e riprese il cammino. Verso mezzodì fece ritorno contemplando dall'alto l'immensa distesa delle acque del mare che, sotto i raggi del sole e mosso lievemente da una leggera brezza, sembrava un grande cumulo di lucenti cristalli. Alle volte si fermava a guardare le opunzie che col bel frutto d'oro arricchivano qualche parete. Spesso qualche paltoniere, al suo passaggio, si fermava, si toglieva il cappello e lo guardava con occhi pietosi per avere la elemosina; dei fanciulli facevano chiasso giocando con le trottole che, gettate con violenza a terra dalle lunghe ferze, giravano su se stesse per parecchi secondi. A brevi intervalli udiva il colpo di qualche fucilata, fatta partire da pazienti cacciatori; e stormi di uccelli fuggivano davanti al pericolo per cadere poi vittime di qualche insidia, fra cappi nascosti in qualche macchia e attirati dalle voci insidiose dei canterini. Intanto, ritornando verso casa, pensava:

- E potrò vedere io il frutto di quell'albero? Altri cinque anni, ha detto quel contadino: chi potrà vivere ancora tanto tempo?

* * *

Dopo sei anni un uomo attempato bussava alla porta del barone. Comparve il cameriere e gli domandò:

- Che cosa desiderate?

- Voglio parlare col signor barone.

- Il barone è ammalato e non riceve nessuno.

- Ho bisogno assoluto di parlargli.

- Ma qual bisogno vi spinge?

- Son venuto a regalargli questo piccolo corbello di fichi: sono le primizie di un mio albero.

- I fiori di fico al signor barone? Ma siete pazzo?

- No, che non sono pazzo; ditegli che sono io, il contadino Michele Guerra. - Ma che guerra e non guerra, il barone è tanto in guerra con le malattie: figuratevi se può stare ad apprezzare i vostri fichi! E poi manca di cotesta roba al signor barone? Ne distribuisce a tutto il paese!

- Vi costa niente annunziarmi? Se ho un rifiuto, l'offesa sarà fatta a me. - Temo che saremo presi entrambi per pazzi.

Il barone, dal pianerottolo, aveva sentito questo dialogo e invitò il cameriere a lasciar passare il contadino il quale, appena fu alla sua presenza, disse:

- Vengo, signor barone, per soddisfare un suo desiderio e adempiere ad una mia promessa. Veramente sarei venuto l'anno scorso, ma l'albero non mi produsse che un solo fior di fico. Mi sembrava poco corretto presentarmi con uno solo. Quest'anno che l'albero ne ha portato di più, ho voluto mantenere la promessa che le feci sei anni fa quando stavo trapiantando l'albero e lei, dal biroccino mostrò il desiderio di vedere il frutto di quest'albero.

Due lucciconi imperlarono le gote del barone.

Sei anni erano passati da quella passeggiata. Erano lagrime di commozione e di emozione. Non sperava di vedere il frutto di quell'albero ed ora lo vedeva. Ammirava la bontà di quel contadino che sacrificava per lui le primizie di un albero e ne privava anche la moglie e i figli. Gradì immensamente il dono, chiamò il cameriere e gli disse:

- Va, deposita i fior di fico e riportami il corbello.

Quando il cameriere ritornò, il barone prese il corbello vuoto e lo riempì di marenghi d'oro dicendo:

- Signor Guerra, torna a casa e con questi marenghi potrai vivere a lungo, contento e felice con tutta la famiglia.

Il cameriere restò sbalordito per tanta generosità del signor barone; non sapeva spiegarsi tanta longanimità per pochi fiori di fico; né meno commosso fu il contadino il quale si vedeva di punto in bianco cambiar fortuna. Tornò a casa che quasi non si contentava più per l'allegrezza e, appena scorse la moglie e i figli, abbracciandoli reiteratamente con effusione gridò: - La Provvidenza è grande: vedete quante monete d'oro!

In così dire gettò sul tavolo tutti quei marenghi. Al luccichio di tant'oro moglie e figli sgranavano gli occhi, né sapevano d'onde fosse piovuta loro tanta ricchezza. Michele spiegò l'enigma e tutti s'inginocchiarono davanti a un quadro della Madonna per ringraziarla di quel ben di Dio, specialmente in quell'anno di crisi.

Dopo poco la condizione sociale di Michele si cambiava del tutto.

Non più abitava in una modesta casetta, ma aveva comprato un bel palazzo: non più andava in campagna con un asino ed un rozzo basto, ma con un plaustro nuovo ed un bel cavallo bardato con finimenti elegantissimi. Comprò altre terre e non più lavorava da solo, né lo si vedeva in piazza in attesa di chi lo conducesse e lo occupasse in qualche lavoro, ma egli si recava in piazza per dare lavoro ad altri operai e li conduceva ai suoi fondi: da semplice contadino era divenuto un ricco proprietario.

Questo cambiamento repentino, si sa, diede ai nervi a molte persone, delle quali alcune gliela mandavano buona, altre accennavano a qualche tesoro trovato, qualcuna a qualche eredità di chi sa quale lontano parente, e non mancò anche chi lanciò l'idea che quella moneta l'avesse sgraffignata a qualche malcapitato.

C'era un suo vicino che si struggeva dalla rabbia per i continui progressi che faceva Michele e si propose di sapere ad ogni costo come aveva fatto tanta fortuna. Ed un giorno di domenica, mentre erano in piazza, gli cece intendere che aveva in casa dell'ottimo vino, insuperabile per bontà e gradazione e lo invitò a volerne fare un assaggio. Michele accettò volentieri l'invito e insieme andarono alla casa di Giovanni. Questi, dopo avergli fatto mangiare del formaggio, dei fichi secchi e delle noci, aprì la ribalta e per una botola scese in cantina, tolse dalla cannella lo zipolo e ne spicciò un orcio di olente e frizzante vin nero: lo offrì a Michele e brindarono alla comune salute.

Poi, di discorso in discorso, si sa che a Roma si va per molte vie, dopo aver parlato della crisi che imperversava, dei prezzi del raccolto che diminuivano, del grave peso della fondiaria, dei coltivi che non si potevano fare a dovere nella campagna e di qualche previsione sul futuro raccolto, conchiuse:

- Anzi, mi fa meraviglia che proprio in quest'anno maledetto, stai facendo tante spese. Sembra strano che mentre tutti si limitano nello spendere, tu fai uno sperpero continuo.

- Eh, caro Giovanni, il mio è un caso singolare. Certo che con quel po' che possedevo, non potevo neppure sostentare la mia famiglia.

- E a che cosa devi tutta la tua fortuna?

- Te lo dico subito: ebbi in cambio di fichi tanti marenghi dal signor barone. - Come, come, dal signor barone?

- Sì, dal signor barone che, gradendo alcuni fichi primitivi che gli portai, in ricambio mi riempì il corbello di marenghi.

- Fortunato te, potesse capitare anche a me una simile fortuna!

- La conversazione dopo andò sempre più raffreddandosi e Michele, augurato la buona notte a Giovanni ed alla famiglia, rincasò.

Intanto Giovanni perdette la sua tranquillità. Per pochi fichi Michele si era arricchito, perché non si potrebbe arricchire anch'egli che aveva tanti alberi della più bella e svariata qualità di fichi? E giorno e notte non faceva altro che fabbricare castelli in aria: erano continui soliloqui. Venne la primavera: ogni mattina si recava in campagna per visitare le gemme e seguiva il lento crescere del frutto di fico. Sospirava quel giorno beato quando si sarebbe presentato davanti al barone. - Questi, pensava, mi conosce: certamente accoglierà con maggiore cortesia me che quel tanghero di Michele, vero bifolco, nato e cresciuto fra la terra, analfabeta perfetto: non sa vergare neppure la sua firma! E poi la qualità dei miei fichi è insuperabile: quelli di Michele non hanno nulla da vedere con i miei. Mi figuro come resterà contento il signor barone!

E di pensiero in pensiero ruminava nella mente il modo come presentarsi, la toeletta da premettere: un fare sommesso, inchini profondi. E già si vedeva alla presenza del barone, il quale con sorriso bonario accettava non un piccolo corbello di fichi, ma un grosso paniere. Ed eccolo ordinare al cameriere di riempire il paniere di marenghi. Uh quant'oro! Il cuore gli sussultava davvero ed avvertiva un fremito per tutta la persona. Corre a casa dalla moglie e dai figli. Mogliettina mia, figli miei carissimi, la nostra fortuna è al colmo! Con quella moneta compra un palazzo signorile e un frantoio con macchine moderne. La fortuna lo aiuta sempre più. Si mette in commercio, si fa straricco. I figli non più in campagna ma li manda agli studi, ed eccoli tutti professionisti: chi ingegnere, chi dottore, chi giurista, chi letterato. Ecco sollevato il casato e cominciare una nuova generazione. Fattosi ricco, bisognava pensare agli onori. Ed ecco che per mezzo di intrighi e di soldi vien nominato cavaliere della Corona d'Italia, poi Ufficiale, poi Commendatore e poi... perché no? anche cugino del Re ottenendo il Collare dell'Annunziata. Ed ecco tutti prostrarsi ai suoi cenni: Signor commendatore di qua, signor commendatore di là. Ed egli ad elargire sorrisi benevoli a destra ed a sinistra...

Ma il duro era che quando si richiamava alla realtà, si ritrovava sempre uno straccione e tutti i sogni cadevano.

Finalmente il giugno si avvicinava: i fichi, avuta a tempo la pioggia salutare, crescevano di giorno in giorno. Nello stesso tempo crescevano anche delle magnifiche pere.

Giovanni era in forse se portare al barone i fichi o le pere. Belli gli uni, più belle le altre. Ed anche questo era per il pover'uomo un vero tormento, ma poi conchiuse: - No, Michele ha fatto la sua fortuna con i fichi, anch'io potrò riuscirvi con i fioroni.

Spiava sempre i passi di Michele, temendo che lo prevenisse, e, non appena poté riempire due grosse sporte di fioroni, rivestì il suo asino di una sporca gualdrappa tanto per nascondere i molteplici guidaleschi di cui era ricca la sua bestia, vi sovrappose il basto, caricò su le sporte e, col cuore gongolante di gioia, si avviò verso la casa del barone. Pensava: - Se mi empirà le sporte di marenghi, Michele creperà di bile!

Compiacendosi di questo tiro fatto al rivale, e facendo molti soliloqui, giunse al palazzo del barone. Bussò, si presentò il portinaio che gli domandò che cosa desiderasse.

- Vorrei parlare col signor barone - disse Giovanni con una certa timidezza. - Ma che cosa volete?

- Donargli questi fichi.

- Oh, forse il signor barone ha bisogno dei vostri fiori di fichi? - Ma questi sono i primi di quest'anno: vedete che bella qualità!

- Credete davvero che il barone non ne abbia dei migliori?

Mentre si svolgeva questo animato dialogo, il barone usciva sul giardino pensile per fare la sua consueta passeggiata e sentì il suo portinaio alle prese con quel contadino. Si affacciò ed ordinò che lo facesse entrare. Quando Giovanni fu su con i fichi fiori, il barone domandò:

- Che cosa è codesta roba?

- Sono fioroni che vengo a regalare a Vossignoria.

- A me? E chi vi dà tanta libertà? Non sapete che il barone De Lucreziis butta via un mondo di quella roba?

- Io glielo ho già detto - soggiunse il cameriere - ma egli ha tenuto duro. - Ma, signor barone - riprese Giovanni - veda come sono belli, sono le primizie di quest'anno! - E non sapeva balbettare altro.

- Vi ho detto che non so che farne dei vostri fichi e, giacché avete avuto la baldanza d'insultarmi a codesto modo, ne subirete il fio.

Chiamato a sé un giovane robusto, gli disse:

- Vincenzo, do a te il compito di risarcire il mio onore e punire la tracotanza di codesto contadino. Conduci quest'uomo nella corte, legalo alla campanella e scagliagli contro tutti i suoi fichi.

Giovanni voleva reagire, parlare, supplicare, ma non ebbe la forza e la possibilità, e la volontà del barone fu eseguita appuntino.

Come i fichi venivano lanciati contro la testa o le spalle o le gambe di Giovanni, si aprivano a guisa di grossi razzi multicolori nei fuochi artificiali e la corte sembrava un cielo stellato.

Quando fu compiuto quello scempio, Giovanni, così malconcio, dovette risalire sul basto e tornarsene a casa con le ceste vuote.

La moglie intanto era impaziente e di tanto in tanto faceva capolino all'uscio, per vedere se tornava il suo uomo con l'asino. Finalmente, dopo tanto attendere, se lo vide tornare così pulito. Ebbe appena il tempo di domandargli: - Ebbene, com'è andata? - che Giovanni, vinto dalla vergogna e dalla stizza, cacciò l'asino nella stalla, prese il basto con le ceste e gettò tutto per terra dicendo:

- Maledetto il momento in cui mi venne la velleità di divenire ricco a spese di altri: la vera ricchezza sta nel lavoro, per noi non c'è altra fortuna. Il signor barone, come ha visto i fioroni, ha ordinato ai servi di scagliarmeli tutti contro. E meno male che ho avuto giudizio a portargli i fichi fiori, che sono morbidi: se gli avessi portato le pere, che sono durissime, a quest'ora, cara Maria, mi avresti pianto per morto, tanta era la violenza con cui me li lanciavano!

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