FAVE
Le fave della prima moglie
I fâf da prem m'gghièr

A  Putignano, nei tempi passati, si mangiava quasi esclusivamente farinella e Fave e farinella, farinella e fave: mattina, mezzogiorno e sera, tranne che nei giorni di Natale, di Santo Stefano e di Pasqua.  Ma non è che tali cibi, semplici ed essenziali, a lungo andare venissero a noia perché i modi di prepararli erano tanti e, poi, le donne di una volta in cucina ci sapevano fare più di adesso, almeno cosi dice qualcuno.

Sta di fatto che Giuann era un gran degustatore di fave; fosse stato per lui le avrebbe mangiate volentieri anche nei giorni di Natale, di Pasqua e di Santo Stefano, senza curarsi delle conseguenze. (È diffusa credenza popolare nel Meridione che colui il quale mangi fave il 26 dicembre, giorno di Santo Stefano, debba poi soffrire di foruncoli che gli diano fastidio quando si siede).

Ora bisogna sapere che, purtroppo per lui, rimase vedovo quand'era ancora giovane e, dopo un po' di tempo, decise di risposarsi.  Trovò una brava donna, che si chiamava Iannèn, e se la sposò.  La nuova moglie faceva di tutto per accontentare il marito e, avendo scoperto che gli piacevano le fave, gliele preparava con ogni cura ed amore, ogni volta in modo diverso: una volta "'mpanàt” (Piatto tipico locale a base di purea di fave mescolata con pezzetti di pane) e un'altra volta "p'zzcàt" (Fave cotte con tutta la buccia e private del nasello), una volta con le patate, un'altra volta "cu i furcë'v" (Vitigni teneri, commestibili una volta cotti) e poi, ancora, con le cicorie, con i peperoni arrostiti, con le rape e così via; tutte le volte chiedeva al marito, piena di apprensione e di speranza:

«T sò piasciòt i fâf, sta volt?»

«Ti sono piaciute le fave questa volta?»

E Giuann, immancabilmente, rispondeva:

«Sò buën proprië, ma nan sont accumm i fâf da prèm m'gghièr».

«Sono proprio buone, ma non sono come le fave della prima moglie»

Iannèn sempre più si dava da fare e ci metteva "tott i sent'mint” (Tutta l'anima) per superarsi e superare il ricordo delle fave preparate dalla prima moglie, ma la risposta era sempre la stessa:

«Sò buën proprië, ma nan sont accumm i fâf da prèm m'gghièr».

«Sono proprio buone, ma non sono come le fave della prima moglie»

Un giorno Iannèn ebbe una visita mentre stava cucinando le fave; venne a trovarla cumma Mareië e insieme cominciarono a ricordare i vecchi tempi: «T'arrcurd ... i t'arrcurd ... » («Ti ricordi...  e ti ricordi .. ») e il tempo passava senza che le due donne se ne rendessero conto. Le richiamò alla realtà un certo odore di bruciato che proveniva dalla cucina; si trattava delle fave che si erano "azz'ccat sott" (Attaccate al fondo). Apriti cielo! «Ciu sap cë'ho descër mo Giuann!» («Chissà che dirà ora Giovanni »). Ma intanto non c'era niente da fare e la povera signora Anna, tremando di paura e con le lacrime agli occhi, a mezzogiorno portò in tavola "i fâf ca ier'n azz'ccat sott".  Giovanni le assaggiò, tornò ad assaggiarle lentamente, quindi si illuminò tutto in volto ed esclamò:

«Mo sên, ca sò proprië accumm i fâf da prèm m'gghièr».

«Adesso sì, sono proprio come le fave della prima moglie».

Si dice che Iannèn così commentò il fatto:

«U gôst u cioccië ié u sal'mint»

« Il gusto dell'asino sono i tralci».

che tradotto in italiano suona più o meno così: «Non è buono ciò che è buono, ma è buono ciò che piace». 

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