clessa

La focaccia avvelenata
   
Nan scêt fascenn mâl ca nann avêt

 

Una volta, non tanto tempo fa, chi era soltanto povero era fortunato perché i più erano nella miseria.

Nella miseria più nera, appunto, viveva Peppino Cënaridd (Cënaridd: agnome derivato dalla parola "cenere") che, oltre ad essere orfano di entrambi i genitori, doveva provvedere a sfamare i fratellini più piccoli di lui che pure era ancora un bambino.

Era tanto piccolo che nessuno gli dava lavoro e così il nostro Peppino era costretto a chiedere l'elemosina che non sempre, però, la gente del paese gli faceva di buon cuore.

Vi era nel paese una ricca signora, ricca sì ma avara, superba e cattiva, una di quelle che nessuno avrebbe voluto avere come nonna.

Peppino, però, spinto dalla necessità, bussava spesso alla sua porta pensando che, tutto sommato, non le sarebbe costato molto dargli gli avanzi della tavola sempre bene imbandita.

Il primo giorno gli dette qualcosa, ma non molto ché anche le sue bestie avevano diritto di mangiare.

E cosi anche il secondo ed il terzo giorno, ma poi: «Quel ragazzo comincia ad esagerare con la pretesa di ricevere ogni giorno qualcosa. Non può pretendere di vivere mangiando alle spalle degli altri» andava pensando e dicendo la ricca signora mentre passeggiava con passi lesti e nervosi nel giardino della sua sontuosa villa: «Bisogna levarselo di torno! ».

il demone dell'avarizia e quello della malvagità che, già da tempo, avevano trovato stabile e comoda dimora nel suo cuore le suggerirono subito un rimedio sicuro ed efficace.

Fece chiamare la fedele servetta e le ordinò di preparare una bella focaccia e poi di avvelenarla; avrebbe dovuto metterci: unghie di rospo, lingua di serpente, zampe di ragno, occhi di civetta e funghi velenosi.

Quando, il giorno dopo, Peppino si trovò di fronte a quella focaccia di aspetto così invitante ed appetitoso non riusciva a credere a tanta generosa bontà e soltanto alla fine accettò di prenderla, dopo i pressanti ed insistenti inviti della ricca signora.

Con il cuore gonfio di gratitudine e di riconoscenza se ne tornò nella sua "casedd" (Casedd: abitazione di campagna composta da uno o più trulli) in mezzo al bosco e, aperta la credenza, scostò le fitte ragnatele e vi ripose gelosamente la focaccia con il proposito di darne ai fratellini soltanto un piccolo pezzo per volta, in modo da farla durare più a lungo.

Peppino, che era anche troppo giudizioso ed assennato per la sua età, pensò bene di non restare a lungo inoperoso: la focaccia sarebbe stata presto consumata e la fame sarebbe ritornata più forte di prima.

Bisognava riprendere subito il solito giro delle elemosine.

Aprì la cigolante e sgangherata porta del suo tugurio e fu investito da un'improvvisa e violenta folata di vento tempestoso.  Il cielo s'era fatto oscuro e greve di nuvole minacciose, mentre il tuono brontolava cupo sempre più vicino; la pioggia si preannunciava imminente e già i primi goccioloni tamburellavano ritmicamente sulle vecchie chianche grigie.  A Peppino non rimase altro da fare che chiamare a raccolta i fratellini e tapparsi in casa: sarebbero rimasti abbracciati stretti stretti per rincuorarsi e ripararsi dal freddo in attesa dell'arcobaleno.

Nel bel mezzo del temporale si senti bussare alla porta.

Peppino riconobbe subito, in quel giovane bagnato fradicio che gli stava davanti, l'unico figlio della ricca signora, quella della focaccia.

Gli si offriva l'occasione di ricambiare subito la generosa offerta appena ricevuta.  Invitò il giovane ad entrare, lo rivesti dei suoi miseri panni mentre quelli bagnati erano stesi ad asciugare e pensò di essere fortunato: aveva pure qualcosa da mangiare che il suo ospite avrebbe certo gradito.

Aprì la credenza e tirò fuori la bella focaccia.  I suoi fratellini avrebbero digiunato ancora un po', tanto ci erano abituati, ma quanta gioia vedere il giovane signore accettare di buon grado la sua offerta e sentirlo raccontare della caccia in cui era impegnato quando era stato sorpreso dal temporale.

In un batter d'occhio la focaccia fu divorata sotto gli sguardi imploranti e pieni di desiderio degli affamati fanciulli.

Quel che successe dopo è troppo triste da raccontare, ma andò proprio cosi.

Il povero Peppino dapprima fu sorpreso quando quel giovane signore cominciò a sentirsi male, poi si preoccupò grandemente ed ebbe paura, ma era un ragazzo in gamba e non si perse d'animo; con l'aiuto dei fratellini lo riportò a casa e lo consegnò alla madre a cui raccontò ogni cosa.

Le urla, i pianti, i pentimenti purtroppo non servirono a nulla.  Piangendo chiese perdono per il male che aveva fatto ma che era ricaduto su di lei; ottenne il perdono ma perse il figlio.

«Nan scêt fascenn mâl ca nann avêt»

«Non fate male che non ne avrete»

Era la conclusione della nonna e la morale della favola, ma si tratta della favola di una volta e di una nonna che non c'è più. 

 

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