PIUMA1

Per una penna di pavone

 

C’era una volta un ricco signore che aveva tre figli: Cola il primogenito, Ciccio il secondogenito e il più giovane di nome Fanuccio.  Quest'ultimo era buono e generoso e tutti gli volevano bene; o meglio, quasi tutti perché i due fratelli, rosi dal tarlo dell'invidia per la predilezione che il padre aveva per Fanuccio, non potevano proprio soffrirlo.

Si dice che la ricchezza non rende felici, e questa è una verità a cui nessun povero crede ma che, a volte, è accettata da qualche ricco, specialmente quando si trova in guai seri che il denaro non può risolvere.  E guai seri toccarono al ricco signore che si ammalò di un male strano non conosciuto dalla medicina, almeno dalla medicina di quel tempo.

Al suo capezzale, infatti, furono chiamati i più illustri luminari della scienza che si prodigarono con ogni impegno: tennero consulti, convegni e dibattiti, simposi e tavole rotonde, fecero ogni sorta di sperimentazione e di indagini, di ricerche e di studi ma non approdarono a nulla; il povero ricco signore invece di migliorare peggiorava ogni giorno di più.  Infine, venuta a conoscenza della strana malattia, si presentò a palazzo una vecchia fattucchiera, un po' maga e un po' indovina, che suggerì un rimedio portentoso di sicuro e pronto effetto; occorreva, però, una penna di pavone.  Purtroppo, nelle immediate vicinanze, ed anche oltre, non si trovavano pavoni e, di penne di pavone, nemmeno l'ombra, neanche a pagarle a peso d'oro.

Fanuccio, il più giovane dei fratelli, non smentì il suo buon cuore e s’offrì subito di andare alla ricerca di una penna di pavone; sarebbe partito all'istante se i due fratelli maggiori non glielo avessero impedito.

Cola e Ciccio pensarono, infatti, che se Fanuccio fosse andato alla ricerca della penna del pavone, il padre gli avrebbe voluto ancora più bene, e questo loro non avrebbero potuto proprio sopportarlo.

Cola cominciò a dire che Fanuccio era troppo piccolo per un'impresa così difficile e rischiosa, che certamente si sarebbe smarrito e che toccava a lui, figlio maggiore, mettersi alla ricerca della penna del pavone per salvare la vita al padre.

Il ricco signore, sempre più ammalato, acconsentì, forse anche per non privarsi dell'amorevole compagnia del figlio più piccolo e della sua costante e premurosa cura. Ringraziò Cola per essersi offerto generosamente, lo fornì di provviste e di ogni ben di Dio, gli dette la sua benedizione e lo lasciò partire.

Cola promise che sarebbe tornato con la penna del pavone o non sarebbe tornato mai più. Tornò, invece, dopo un po' di tempo, stanco, sporco e affamato, ma senza la penna del pavone, accolto tuttavia con amore e con gioia dal vecchio genitore sempre più debole, sempre più malato.

Fanuccio, questa volta, insistette maggiormente e scongiurò il padre di lasciarlo finalmente partire.  Il padre, invece, dette ascolto alle ragioni del secondogenito e così anche Ciccio partì convinto che, tornando a casa con la penna di pavone, il padre lo avrebbe preferito agli altri due e lo avrebbe ricompensato con denaro, oro, case, ville e masserie.

Passarono i giorni, passarono le settimane e anche Ciccio tornò, stanco, sporco, affamato, ma senza la penna del pavone.

Questa volta Fanuccio non volle ascoltare ragione, né si lasciò commuovere dalle preghiere e dalle suppliche del padre, ormai rassegnato alla sua malattia.  La mattina dopo, di buon'ora, partì.

Passarono i giorni, passarono le settimane e poi i mesi; il padre si faceva portare sempre più spesso vicino all'ampia finestra della stanza da letto e con crescente angoscia scrutava l'orizzonte con la speranza di vedere spuntare in lontananza, sulle spighe ormai bionde del grano, il suo amato Fanuccio.  Infine decise di chiedere a Cola e a Ciccio di partire alla sua ricerca.

I due fratelli dapprima nicchiarono, poi inventarono ogni sorta di scusa pur di non allontanarsi dal palazzo: come si stava bene ora che Fanuccio non c'era più!  Sembrava loro una reggia e l'avrebbero presto ereditato. Poi, però, non potettero più resistere alle insistenza del padre e, infine, partirono.  Decisero, comunque, di non affaticarsi troppo: si sarebbero sistemati sotto un folto leccio, sul limitare del bosco vicino, avrebbero gozzovigliato con le abbondanti provviste sottratte alla fornita credenza di casa e, poi, sarebbero tornati dal vecchio padre fingendosi afflitti e sconsolati; avrebbero raccontato di aver girato per mari e per monti, di aver chiesto a genti di tutte le nazioni, ma invano perché nessuno aveva visto Fanuccio.

Trovarono subito l'antico leccio dei loro giochi di un tempo, si sdraiarono comodamente sul soffice tappeto di foglie cadute e presto li colse un sonno profondo.

Furono svegliati da un allegro fischiettìo proveniente da oltre gli odorosi cespugli di lentisco e, subito dopo, videro Fanuccio venire nella loro direzione, contento come una Pasqua.

Non appena li riconobbe, Fanuccio corse ad abbracciarli gridando: «L'ho trovata!  L'ho trovata!» e sventolava una magnifica penna di pavone, verde e turchese.

L'invidia e la gelosia, che non avevano mai abbandonato il cuore dei due fratelli, fecero sentire prepotentemente il loro scellerato consiglio e Ciccio e Cola purtroppo vi dettero ascolto.

Ciccio afferrò Fanuccio per le spalle e Cola lo colpì ripetutamente con un grosso masso.  Lo seppellirono, quindi, sotto il leccio.

Si avviarono, poi, verso casa e al padre infelice raccontarono di aver girato in lungo e in largo: avevano trovato la penna del pavone, ma di Fanuccio nessuna traccia.

Al povero padre, guarito dal male grazie alla penna del pavone, non rimase che piangere e disperarsi per la scomparsa del diletto Fanuccio.

Ricompensò i due fratelli con tanta ricchezza che a lui ne rimase pochina, tanto, anche questa volta, tutto l'oro del mondo non sarebbe servito a niente; non gli avrebbe restituito l'adorato figliuolo.

Passarono i mesi, passarono gli anni e un giorno un pastorello, in cerca di erba nuova e più tenera per le sue pecore, si fermò sotto il leccio che, impietrito, aveva assistito al misfatto dei due fratelli: tale era stato l'orrore che lo aveva colto che aveva perso tutte le foglie e soltanto da poco si era ripreso, ritornando a vegetare come una volta.

Al momento di raccogliere il gregge per tornare all'ovile, invano il pastorello chiamò a gran voce il suo fedele Arsenio; il cane raspava con foga la terra e, nonostante i richiami del padroncino, non smetteva nemmeno un istante di scostare foglie e terreno aprendo una piccola buca. Abbaiava, anzi, con insistenza per richiamare l'attenzione del pastorello su di un osso che era affiorato dal fosso.  Era proprio un bell'osso, lungo, liscio e lucente e il pastorello pensò di farne un bel piffero da suonare quando la malinconia lo coglieva, nelle lunghe notti di plenilunio, seduto sul prato con la sola compagnia del fedele Arsenio e delle sue pecore. Praticati, con abilità e maestria, più fori per tutta la lunghezza dell'osso, volle provare a suonare e grande fu la sua sorpresa quando, insieme a note dolcissime e struggenti, dal piffero sembrò uscire una voce quasi umana che cantava così:

 «Suona, suona o mio pastore

che mi sai ben suonar,

per la penna del pavone

Ciccio mi tenne e Cola fu».

Incredulo, provò e riprovò ancora una volta, ma sempre dal piffero veniva fuori quell'esile voce che ripeteva quelle strane, incomprensibili parole.

Da quel giorno, andando per monti e per valli, per paesi e città, non cessava di suonare quello strano piffero e la gente, che si fermava ad ascoltare, restava sorpresa ed incantata e, infine, gli regalava qualcosa.  Così un giorno capitò anche nel paese dove vivevano lo sfortunato padre ed i due malvagi fratelli.  Si soffermò a suonare nella piazza principale e subito la notizia di un piffero sorprendente che suonava con voce umana si diffuse in ogni casa giungendo anche alle orecchie del povero padre.  Incuriosito, fece chiamare il pastorello e lo pregò di suonare dinanzi a lui: il piffero ripeté ancora una volta il suo triste ritornello.  Stupito ed incredulo il vecchio signore volle provare di persona:

 «Suona, suona o padre mio

che mi sai ben suonar,

per la penna del pavone

Ciccio mi tenne e Cola fu»,

fece questa volta il piffero.

Il padre finalmente capì come si erano svolti i fatti.

Fattosi raccontare dal pastorello i particolari del ritrovamento dell'osso trasformato in piffero, volle comprarlo ad ogni costo ed offrì in cambio tutto quello che gli era rimasto della ricchezza di una volta.

Il pastorello, sempre più sorpreso per le vicende che gli capitavano da quando aveva trovato quell'osso, felice e contento accettò.

Allora il padre infelice fece chiamare Cola e Ciccio e mostrò loro il piffero di osso.

«Bello!» esclamarono i fratelli. «Suonatelo!» ordinò il padre.

Alquanto sconcertato per la strana richiesta, Cola prese il piffero e vi soffiò dentro:

 «Suona, suona o Cola mio

che mi sai ben suonar,

per la penna del pavone

Ciccio mi tenne e tu fosti».

Poi toccò a Ciccio:

 «Suona, suona o Ciccio mio

che mi sai ben suonar,

per la penna del pavone

tu mi tenesti e Cola fu».

I due fratelli si sentirono perduti; impallidirono in volto e rimasero ammutoliti non riuscendo nemmeno a balbettare una sola parola a propria discolpa.

Furono privati di ogni ricchezza e cacciati di casa, mentre lo sfortunato padre riprese a piangere a causa dei suoi figli: uno tanto buono da perdere la vita per salvare la sua e due tanto cattivi da privare della vita il fratello per invidia ed avidità.

 

approfondimenti2SIPARIO