borgo

Leone e Teresina

C'era una volta una povera vedova che aveva una giovane figlia di nome Rosa. Vivevano raccogliendo verdure selvatiche come cardoncelli, lambascioni, cicoriette asparagi, sivoni. Abitavano in una capanna nel bosco.

Un giorno, mentre cavavano cicorie, passò un Principe su un cavallo bianco. Si fermò a interrogarla e, quando vide Rosa, la vide così bella ma così bella, che se ne innamorò.

Così prese la mamma e la figlia sul suo cavallo e le portò al palazzo reale. Le fece lavare, pettinare e vestire di panni d'oro. Rosa era ancora più bella, sicché quando la presentò a Corte al re e alla regina suoi genitori, anch'essi ne rimasero affascinati e acconsentirono al desiderio del loro figlio di sposare Rosa. Si fecero le nozze con grandi festeggiamenti e tutti vollero bene a Rosa che era bella e buona.

Dopo un po' sua madre ebbe nostalgia della sua modesta casetta nei boschi e chiese di poterci tornare. Fu accontentata.

Passò del tempo e Rosa restò incinta. Ebbe desiderio di rivedere sua madre e chiese al Principe suo sposo di poter andare a farle visita. Subito il Principe ordinò di allestire una carrozza e insieme partirono, fra mille premure e attenzioni, verso la casa della mamma di Rosa. Mentre attraversavano un bosco, Rosa ebbe bisogno di far pipì. Lo disse al Principe con delicatezza e lui subito fece fermare la carrozza, ne discese per primo e porse la mano alla moglie per aiutarla a scendere. Ma Rosa, che era molto pudica, non volle essere vista da nessuno, così si appartò dietro un cespuglio e si accinse al suo bisogno.

Ma all'improvviso da un altro cespuglio apparve un grandissimo leone che in un baleno la rapì.

Il Principe attese a lungo che Rosa tornasse; la chiamò, la cercò, ma non riuscì più a trovarla. Allora, insieme al cocchiere e alla scorta perlustrò tutto il bosco. Ma niente. Rosa era sparita. Tornò alla reggia disperato. Il re ordinò ai soldati di andare a cercare sua nuora scomparsa nel bosco ma nessuno riuscì a trovarla.  Subito si riunì il Consiglio della Corona e decretò che la principessa Rosa era morta, forse divorata da una bestia feroce nel bosco. Tutta la Corte prese il lutto.

Ma Rosa non era morta. Era solo prigioniera di quel grosso leone che la teneva in una grotta dove la trattava con garbo e gentilezza, portandole ogni sorta di frutti di bosco e selvaggina fresca che lui cacciava. Solo che quando usciva per la caccia nel bosco, chiudeva l'entrata della grotta con una pietra enorme e pesantissima. Così la povera Rosa, quando era sola, non vedeva nemmeno la luce del sole.

Un giorno il leone tornò nella grotta e trovò che Rosa non era più sola: le era nato un bel bambino, bruno, vispo e riccioluto. Per coprirlo Rosa, si era strappato tutto il suo vestito principesco e ne aveva fatto le fasce da neonato.

Il leone fu così contento a quella vista che emise un fortissimo ruggito e parlò:

«Vuoi o non vuoi, questo bambino si chiamerà Leone».

E così fu.

Il ragazzo cresceva forte come un leone, con una capigliatura folta come una criniera.

Giunto a dieci anni, chiedeva sempre a sua madre:

«Mamma, chi è mio padre?»

«Il leone».

«Allora perché esce sempre da solo a caccia, non ci porta mai con se, ci lascia qui al buio, senza poter vedere la luce del sole se non dalle fessure di quel macigno?»

Tanto disse e tanto fece che alla fine la madre gli rivelò il segreto. Allora il ragazzo decise che sarebbero fuggiti per tornare alla casa del padre Principe e del nonno Re. Così un giorno, mentre il leone era a caccia, egli ce la mise tutta e, insieme alla madre, riuscì a smuovere il macigno e a fuggire con lei. Correvano nel bosco col cuore in gola, per la paura di incontrare il leone o di essere da lui inseguiti e raggiunti, non appena si fosse accorto della loro fuga. Anche quando furono usciti dal bosco continuarono a correre e, ai contadini sorpresi e incuriositi, chiesero solo di indicare loro la strada della reggia. Giunti che vi furono, trafelati chiesero alle guardie di farli entrare. Mentre quelli dicevano di no, apparve all'orizzonte un enorme leone in corsa. I due gridarono di paura:

«Presto, apriteci altrimenti ci riprenderà!»

Le guardie capirono subito quale pericolo correvano i due fuggiaschi e li fecero entrare. Poi puntarono le loro lance contro la bestia inferocita che sopraggiungeva a grandi passi. Ma quando il leone vide quelle armi spianate si fermò, guardò, ruggì ferocemente, fece dietrofront e scappò nel bosco, dove sparì per sempre.

Così Rosa riprese la sua vita di principessa nella reggia. Leone era sempre un ragazzo forte e combattivo. Gli piaceva giocare alla guerra con i suoi coetanei. Li metteva in fila, dava loro la divisa, le armi e poi li comandava.

Quando non obbedivano si arrabbiava moltissimo e li picchiava anche. Tanto che i ragazzi, quando tornavano alle loro case pesti e persino feriti, se ne lamentavano coi loro genitori. Questi allora andarono dal Principe a protestare per i modi violenti di suo figlio.

Il Principe padre richiamò Leone ma il giovane se ne offese molto e diventò furioso come una belva:

«Loro mi prendono in giro. Dicono che sono figlio di un leone. Allora li picchio. Anzi io li ammazzo tutti!»

Così i ragazzi-soldati se ne andarono e Leone restò nuovamente solo. Di nuovo in preda all'ira, corse da sua madre e disse:

«Anch'io voglio andarmene».

«Ma dove» replicò la poverina ansiosa.

«Ovunque, anche all'inferno, ma lontano da qui».

La madre pianse, si disperò, il padre si consultò col re. Ma non ci fu niente da fare. Il vecchio sovrano non volle impedire al giovane di partire all'avventura. Gli dette denaro, armi e cavallo e lo benedisse così: «Io, tuo nonno, ti raccomando a Dio e non ai diavoli come hai detto tu. Fai come vuoi, vai dove credi ma domani entra nella prima chiesa che trovi sul tuo cammino, ascolta la messa e raccomandati a Dio».

«Sì nonno, io voglio andare, non importa dove, ma in giro a conoscere il mondo, a fare esperienze. Sono giovane e coraggioso, non posso fermarmi qui a morire d'inedia».

Se ne andò dopo aver abbracciato i suoi cari e seguì i consigli del vecchio nonno.

Cammina cammina, cammina cammina, si addentrò in un bosco. La strada era lunga e faticosa. Cominciava ad aver fame.

A un tratto vide un uomo che, tutto solo, lanciava delle pietre su una grande chianca conficcata nel terreno, fino a colpirla ed abbatterla. «Che fai?» chiese.

«Non vedi? Gioco alla "staccia"».

«Tutto solo?»

«Sì, sono orfano. I miei genitori erano carbonai. In questo bosco bruciavano la legna per farne carboni e avevano una capanna dove ora io vivo da solo e mi diverto così, giocando e cacciando lepri con le tagliole. Vuoi giocare con me?»

«Sì, ma come ti chiami?»

«Menachianca. E tu?»

«Leone, figlio di principe e nipote di re».

Diventarono amici. Leone stette poi qualche giorno nella casetta di Menachianca a mangiar lepri e a giocare a staccia. Ma dopo un po' si annoiò e volle riprendere il suo viaggio.

«Vuoi venire con me?»

Menachianca accettò e insieme proseguirono, il figlio del Principe a cavallo e il figlio del carbonaio a piedi.

Dopo un certo cammino incontrarono un uomo che con una mano sola sradicava giovani querce.

«Cosa fai?» gli chiesero.

«Mi diverto a svellere il bosco. Sono orfano di boscaioli e mi chiamo "Scioppaboschi"».

«Vuoi venire con noi?»

«Sì».

Così furono in tre a viaggiare all'avventura.

Ai margini del bosco trovarono una grande masseria vuota con annessa una graziosa chiesetta. La perlustrarono e la trovarono fornita d'ogni cosa, ma senza anima viva. Decisero di fermarsi un po' lì, finché non fossero tornati i padroni, stranamente assenti.

Dopo qualche giorno, Leone decise che uno di loro a turno (Menachianca fu il primo) restasse in casa a preparare il pranzo e gli altri due andassero a caccia nel bosco. Quando tutto fosse stato pronto, avrebbe suonato la campanella della chiesa. I due amici l'avrebbero sentita nel bosco e sarebbero tornati.

Così fecero. Partiti Leone e Scioppaboschi, Menachianca si dette da fare a preparare il pranzo. Andò anche in cantina per spillare del buon vino fresco. Ma, appena fu sotto la grande botte, sentì come se qualcuno la spingesse e quella gli cadde addosso. Ne restò quasi completamente schiacciato e tramortito. Ne sarebbe sicuramente morto se non avesse impiegato tutta la sua forza per sgusciare pian piano da lì sotto. Corse in cucina a completare i preparativi ma, quando andò a suonare la campanella, i due amici erano già di ritorno.

«Perché non hai suonato più la campanella?»

«Perché non sono molto pratico in faccende domestiche ed ho fatto tardi; scusatemi».

Così mangiarono tranquillamente, nulla sapendo del misterioso accaduto che Menachianca volle tenere nascosto.

Il giorno dopo toccò a Scioppaboschi restare in masseria mentre gli altri due andavano a caccia. Anche il figlio del boscaiolo si dette da fare per preparare un buon pranzetto. Ma quando andò a prendere la legna per accendere il fuoco, la catasta che era nell'aia gli ruinò addosso, come spinta da una forza misteriosa.

Il poveretto rimase schiacciato lì sotto per diverso tempo e dovette fare appello a tutte le sue forze di boscaiolo per potersi liberare da quei tronchi accatastati sopra di lui. Quando finalmente ne uscì e tornò in cucina a preparare, era già ora di suonare la campana. Appena lo fece, vide i due amici già in arrivo.

«Cosa ti è successo, perché non suonavi mai?» gli chiesero.

«Niente, solo un mal di pancia. Ho mangiato troppo ieri».

Anche Scioppaboschi volle tenere segreto il fattaccio. Ma Menachianca se ne insospettì e, dopo pranzo, lo chiamò in disparte e gli rivelò il suo segreto, a patto che anche l'amico parlasse di quello che era accaduto a lui. Convennero che quella masseria era stregata perché qualche forza malefica metteva a repentaglio la vita di chi ci abitava.

Ma non vollero dire nulla a Leone per vedere come se la sarebbe cavata lui, il capo, il più forte, il giorno dopo quando gli toccava restare da solo in masseria.

Leone si insospettì nel vederli confabulare e il mattino successivo, quando quei due, partendo per il bosco gli augurarono buona fortuna, lui stette più all'erta che mai. Ogni cosa la faceva con circospezione stando bene attento a dove metteva le mani e i piedi. Infatti, mentre era sul pozzo per attingere l'acqua necessaria alla cucina, si sentì come spinto da una mano che voleva gettarlo nel pozzo. Ma lui fu più svelto e con uno scatto saltò oltre il pozzo, fino a cadervi non dentro ma dall'altra parte. Si rialzò subito e si voltò immediatamente per vedere chi lo aveva spinto: una sagoma umana in forma di nuvola fuggiva. Leone tentò di inseguirla, ma quella si dissolse pian piano posandosi sul terreno, come risucchiata nel sottosuolo.

Leone raggiunse il punto dove la nuvola magica sembrava essere stata inghiottita dal terreno e vi trovò solo un buco. Un grande profondo buco, come un budello lunghissimo che sembrava senza fondo. Guardò giù, provò con le mani, provò con un sasso. Ma il fondo non si toccava né si vedeva.. Non si vedeva nulla. Era una grave. Leone l'osservò bene e capì che da lì saliva il malefico in forma di un vero mago cattivo che veniva in superficie per ammazzare tutti gli abitanti della masseria che perciò era sempre deserta. Da solo non poteva far nulla.

Tornò subito indietro, si affrettò a preparare il pranzo e suonò in tempo la campanella. I due amici nel bosco si meravigliarono che Leone avesse fatto tutto in tempo, senza incidenti di sorta: la magia non faceva effetto su di lui?

Tornarono, mangiarono come se nulla fosse. Ma dopo furono affrontati da Leone che li smascherò nella loro doppiezza e li rimproverò aspramente per avergli taciuto il mistero. I due confessarono, dicendo che avevano taciuto solo per paura. Ma ora che Leone aveva scoperto la causa di quella stregoneria, erano pronti a fare la loro parte.

«Adesso mi dovete giurare eterna fedeltà. Perché solo se mi obbedite in tutto e per tutto io potrò stanare e ammazzare il mago, liberare la masseria e far diventare voi ricchi di denaro e di sentimenti. Giuratelo sulla mia spada». Così fecero. Poi Leone con la punta del suo pugnale, ferì leggermente i polsi di tutti e tre. Fecero un patto di sangue, mescolando le gocce che ne erano fuoriuscite: da allora dovevano dirsi tutto, nella massima sincerità e dovevano essere sempre fedeli gli uni con gli altri. Pena la morte. Così ognuno raccontò la sua disavventura.

«In questa masseria abita un mago che ammazza tutti quelli che vi entrano» la conclusione dei due compagni confermò quello che Leone aveva intuito da solo. «L'ho visto fuggire nella grave in forma di nuvola. Ma io lo raggiungerò anche al centro della terra e lo ucciderò» si propose solennemente il principe coraggioso.

«Voi mi aiuterete. Domani io mi calerò nella grave e andrò a cercarlo. Ma occorre molta corda».

Si misero a cercare per tutta la masseria. Ne trovarono tanta e la legarono insieme fino a farne un'unica fune lunghissima. Il giorno dopo, recatisi sulla bocca della grave, Leone legò fortemente un capo della corda alla sua cintura e ordinò:

«Ora calatemi giù, piano piano, tenendo forte in mano la corda. Quando avrò toccato il fondo di questo cunicolo l'agiterò per tre volte. Sarà il segnale perché voi possiate lasciare la fune, fissandone il capo ad un macigno. Poi esattamente fra un anno, un mese e un giorno voi tornerete qui sulla bocca della grave e aspetterete il mio segnale. Quando vedrete agitarsi la corda, dovrete tirarla su perché sarò io di ritorno. Intesi?»

I due compagni fecero segno di sì ed eseguirono a puntino. Leone si calò piano piano fin giù e poi fece segno che era arrivato.

Menachianca e Scioppaboschi legarono il capo della fune ad un masso lì vicino e rientrarono nella masseria dove segnarono su una lavagna il giorno, il mese e l'anno convenuto con Leone per tornare alla grave, aspettare il suo ritorno e tirarlo nuovamente su, al suo segnale.

Intanto Leone, toccato il fondo della grave, si trovò in un altro mondo. Cammina cammina, giunse a una casetta in cui era rinchiusa una fanciulla che si meravigliò di vederlo in quel posto. Disse di essere la principessa Maria, prigioniera con le sue sorelle del mago cattivo che le teneva lontane l'una dall'altra e mangiava vivi tutti quelli che osavano accostarsi a loro. Ma Leone proclamò il suo coraggio e promise di liberare lei e le sue sorelle da quel mago che già aveva tentato di ucciderlo e che lui era venuto a cercare in quest'altra parte della terra.

«Ma lui è indistruttibile - protestò sconsolata Maria - nessuno può ucciderlo. Va via, se non vuoi che ti succeda il peggio».

Mentre parlavano si sentirono i passi del mago che tornava a casa. Immediatamente la principessa Maria nascose Leone e provvide con molte premure a far cenare e addormentare il mago, in modo che Leone potesse fuggire. Così il coraggioso principe arrivò alla seconda casetta dov'era prigioniera la principessa Antonietta, sorella di Maria, che confermò l'indistruttibilità del Mago ma disse pure che essa era legata a un segreto sortilegio. Leone promise che avrebbe scoperto il segreto e l'avrebbe liberata dal Mago. Poi si recò alla terza casetta dov'era la bellissima principessa Teresina che subito s'innamorò di Leone e ne fu ricambiata. Siccome Teresina era la prediletta del Mago, a lei toccò strappargli il segreto della sua indistruttibilità. Una sera si fece trovare da lui afflitta e sconsolata dicendosi preoccupata perché alla morte del Mago ella sarebbe rimasta sola e abbandonata da tutti.

«Non temere - la rassicurò il Mago - io non posso morire».

«Perché? - insistette Teresina - se noi tutti prima o poi dovremo morire, prima o poi può capitare anche a te».

«Più poi che prima - disse ridendo il Mago - la mia vita è legata a quella di un incantesimo».

«Quale?»

«Questo: perché la vita se ne vada da me, occorre che un uovo magico mi sia schiacciato sulla fronte; perciò io dormo sempre con gli occhi aperti». «E dov'è quest'uovo magico?»

«In una colomba che è nascosta nel petto di una cinghialessa ferocissima, la madre di tutti i cinghiali».

Appena Teresina seppe di questo incantesimo, lo disse subito a Leone che partì immediatamente in cerca della cinghialessa. Incontrò gruppi di pastori che lo ospitarono, lo sfamarono e lo misero in guardia dall'entrare nel bosco della cinghialessa perché questa era così feroce che ammazzava tutti quelli che vi si affacciavano. Leone stette un po' con loro e quando vide che non sapevano lavorare il latte delle pecore, prese un agnello da latte, lo ammazzò, ne estrasse il latte acido ancora caldo dalle budella e ne ricavò il caglio che gettò nel latte. Così fece il formaggio e la ricotta che quei buoni pastori gustarono moltissimo. Furono così felici della scoperta, che ne parlarono a tutti i loro conoscenti. Tanto che accorrevano a lui da tutte le parti per imparare l'arte di cagliare il latte delle pecore. E quando per Leone giunse il momento di entrare nel bosco e di affrontare la belva, i pastori, per dimostrargli la loro gratitudine, decisero di aiutarlo tutti insieme.

Organizzarono una battuta di caccia, fecero tante squadre e si disposero a ventaglio nel bosco. Così avanzavano, da un confine all'altro, gridando e sbattendo per terra rami fronzuti e bastoni. Tutto quel fracasso stanò la bestia che cominciò a fuggire. Le squadre dei pastori-cacciatori la incalzavano, la circondavano, la spingevano proprio verso dove Leone era appostato dietro una quercia una grande quercia. Egli stava lì, all'erta, teso, con tutte le sue forze concentrate nell'impugnatura della spada lucente che teneva alta, con entrambe le mani. Appena la cinghialessa passò davanti a lui, il principe coraggioso calò la spada e vibrò il colpo velocissimo e micidiale. Con un solo fendente le mozzò il capo. Poi la squartò e ne trasse fuori la colomba; dalla sua pancia prese l'uovo magico e, salutati velocemente gli amici pastori, lo portò di corsa a Teresina. Insieme la notte si accostarono piano piano, furtivamente al letto del Mago che, dormendo con gli occhi aperti, era sensibilissimo ad ogni movimento. Infatti li vide e fece per alzarsi. Ma Leone fu più veloce di lui e gli schiacciò l'uovo sulla fronte. Il Mago tentò di difendersi, gridò, si dimenò, barcollò, poi cadde, morto. «Siamo liberi!» gridò Teresina a Leone e insieme corsero a liberare le altre due sorelle che non credevano ai loro occhi. Le tre sorelle si abbracciarono, ringraziarono Leone e stettero un po' con lui. Poi, essendo giunto il tempo prestabilito, si recarono al punto dove finiva la grave, per risalire nel loro mondo. Leone prese l'estremità della corda e l'agitò per segnalare la sua presenza agli amici che erano su. Infatti Menachianca e Scioppaboschi, puntuali all'appuntamento, erano lì e subito tirarono su la corda. Quale non fu la loro meraviglia nel vedere apparire dalla grave una bellissima fanciulla, Maria; e poi un'altra, Antonietta; e poi un'altra ancora, Teresina. Le tre principesse raccontarono la loro storia e di come Leone col suo coraggio le avesse liberate dal Mago.

Allora i due compagni furono presi da gelosia per Leone e decisero di farlo fuori. Quando tirarono su la quarta volta la fune, giunta che fu a metà percorso, la lasciarono cadere di botto.

Si sentì un gran tonfo: Leone era morto sfracellato nella profondissima grave. Ma le tre principesse capirono quello che era avvenuto e non credettero alle bugie dei due compari che volevano far credere a una disgrazia. Anzi li smascherarono e li picchiarono con dei grossi bastoni tanto che i due manigoldi se la dettero a gambe. Per fuggire ancora più veloci e più lontano, saltarono sul cavallo di Leone e se ne andarono portandoselo via.

Ma il principe non era morto perché, furbo com'era, aveva previsto il tradimento dei due suoi amici e invece di se stesso aveva legato alla fune una grossa pietra.

Intanto, per poter giungere in questo mondo, non potendo più passare per lo stretto cunicolo della grave, chiese aiuto ad un'aquila.

«Se tu mi dai da mangiare carne e da bere acqua, io ti trasporterò nell'altro mondo».

Subito Leone, tornando nelle casette delle principesse, prese quanto chiesto e lo portò all'aquila. Questa, dopo essersi sfamata, se lo caricò in groppa e, sorvolando i due mondi, lo depositò proprio sulla bocca della grave. Alla finestra della masseria, dove le tre principesse avevano preso alloggio, c'era proprio Teresina, che sospirava per il suo amore perduto. Leone la chiamò e lei subito lo riconobbe e gli corse incontro festante e giuliva. Anche le sue sorelle lo festeggiarono e gli chiesero come aveva fatto a scampare al proditorio attentato dei suoi amici. Leone lo raccontò ma poi disse:

«Ora dovete aspettare ancora un po' perché io devo andare a punirli. Hanno rotto il patto di sangue».

Così partì all'inseguimento dei due felloni. Non appena scorse da lontano li chiamò:

«Venite qui, traditori».

Ma quelli, al sentirsi così chiamati, riconobbero Leone, sbiancarono in volto e spronarono il cavallo per fuggire lontano, mentre se la facevano addosso dalla paura.

Ma Leone fece un fischio e chiamò:

«Rondella!» il suo cavallo, più fedele dei due amici infedeli, si fermò di scatto e si voltò indietro dirigendosi verso il suo padrone. Così gli consegnò i due manigoldi e Leone li punì con la morte.

Poi tornò dalle principesse e insieme intrapresero il lungo viaggio che le avrebbe riportate nella reggia del re loro padre, sotto la guida del loro salvatore. Furono accolti da grandi feste e giubilo.

Ma per Leone non erano ancora finite le peripezie. Quando chiese la mano di Teresina al re padre questi, pur essendogli molto grato per aver salvato le sue tre figlie, gli chiese una prova, prima di acconsentire al suo matrimonio: doveva fabbricare con le sue mani un grosso diamante in tutto simile a quello che lui aveva dato alla Regina quando si erano sposati.

Leone accettò la prova e quindi, visto per una sola volta il famoso diamante, fu rinchiuso in un sotterraneo con gli attrezzi necessari a compiere l'opera. Leone lavorava e lavorava per giorni e giorni. Ma il diamante non gli veniva proprio uguale. E il tempo passava. Teresina era in pena per lui. Allora andò a guardarlo dal buco della serratura e, vedendolo così sudato, sporco, bianco e dimagrito, decise di aiutarlo. Sottrasse di nascosto a sua madre la chiave di quella prigione e andò all'amato. Leone l'abbracciò e la baciò, ma le confidò di non riuscire a compiere l'opera perché non ricordava più bene com'era fatto il diamante modello. Allora Teresina tornò a sottrarre a sua madre una chiave, quella dello scrigno ov'era custodito il diamante, lo prese e nottetempo lo portò al suo amante. Leone col modello davanti, lavorò in fretta e con precisione. Il mattino dopo, rimesso al suo posto il diamante di sua madre, Teresina andò dal re e disse di aver sognato che Leone aveva terminato l'opera. Così il re, la regina e tutta la corte scesero nel sotterraneo e, appena aperta la porta, restarono quasi abbagliati dallo sfolgorio del diamante fabbricato da Leone: bellissimo, completo, perfetto. Ancora più bello dell'originale.

Così il re dette il suo consenso e si celebrarono le nozze fastose di Leone e Teresina che, ricchi del loro diamante e del loro amore, vissero sempre felici e contenti.

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