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ROMEO E LA MORTE

C'era una volta il povero Romeo che abitava con la sua famiglia in un sotterraneo, mentre nel palazzo soprastante abitava un ricco conte. Costui ebbe la chiamata alle armi ma, non avendo voglia di andare a fare il soldato, pensò di mandarci Romeo al suo posto. Perciò scese dal suo palazzo e si recò nel tugurio maleodorante di Romeo. Il quale, appena lo vide si sbracciò in saluti e inchini, dicendo:

«Favorite signor conte. In cosa posso servirvi? Voi mi fate troppo onore venendo nella mia povera casa. Anzi è talmente affumicata che è meglio che non entriate proprio, altrimenti vi riempite gli abiti di puzza. Uscirò io». Così, sull'uscio, il conte fece a Romeo la sua proposta.

«Se andrai a fare il soldato al mio posto io ti darò 300 ducati e il mantenimento della tua famiglia per tutto il tempo che tu sarai lontano». Romeo, che non aveva mai visto tanto denaro in vita sua, accettò subito e disse:

«Parto volontario».

Quando fu al reggimento, andò dal comandante e gli dette i 300 ducati da custodire.

«Quando finirò la ferma, verrò a riprenderli».

«Non ti preoccupare - gli disse il comandante - tu pensa a fare il buon soldato».

Prima che Romeo finisse il suo tempo da militare, un altro nobile signore fu chiamato al soldato. Pensò:

«Se il conte è riuscito a farla franca, ci riuscirò anch'io». Andò anche lui da Romeo e gli fece la stessa proposta: 300 ducati e il mantenimento della famiglia, se avesse fatto il servizio militare al suo posto.

Anche stavolta Romeo accettò e portò gli altri 300 ducati al comandante. «Non temere - gli disse quello - tu pensa a fare il buon soldato». Accadde poi che un barone fu chiamato alle armi.

Anche lui, avendo saputo degli altri due nobili e di Romeo, gli fece la stessa offerta: 300 ducati e il sostegno della famiglia, se accettava di fare il soldato in vece sua.

Anche stavolta Romeo accettò, pensando con soddisfazione al bel gruzzolo che avrebbe portato a casa alla fine della ferma: trecento più trecento più trecento fanno novecento.

Facendo mentalmente questi conti, portò anche la terza somma dal comandante, affinché gliela custodisse.

«Non dubitare, tu pensa solo a fare il buon soldato».

Passati i tre anni della ferma, Romeo andò dal comandante per congedarsi e ritirare i suoi novecento ducati.

«Miserabile, morto di fame! - lo investì quello - tu a me non hai mai dato niente. Come ti permetti di chiedermi soldi che non hai mai avuto? Bugiardo. Guardie, arrestatelo!».

Il povero Romeo finì in prigione e ci dovette stare per parecchio tempo. Fino a quando il comandante lo fece liberare, gli gettò per terra pochi spiccioli per un tozzo di pane e lo scacciò via.

Così Romeo, compratosi un po' di pane, cominciò a piedi il lungo viaggio di ritorno a casa sua:

«Povera moglie mia, poveri figli miei - pensava - come faranno a campare ora senza di me e senza il sussidio dei signori?»

Era il tempo che Gesù Cristo andava ancora per il mondo. Romeo era così triste e pensieroso, quando si imbatté proprio nei discepoli con Gesù. Anche loro avevano fame e allora S. Pietro disse:

«Maestro, ora vado a chiamare Romeo».

«Lascialo andare» gli consigliò Gesù.

Ma S. Pietro, come al solito, volle fare di testa sua. Si avvicinò al povero viandante e gli disse:

«Romeo, Romeo, cos'hai, del pane? Lì c'è il maestro che ha fame».

«Sì, ne ho molto poco perché mi è capitato questo e quest'altro». E narrò le sue disavventure.

Allora S. Pietro gli suggerì:

«Chiedi una grazia a Gesù».

Romeo dette il suo pane. Gesù lo prese e si sfamò lui con tutti i discepoli: il pane nelle sue mani si moltiplicava miracolosamente.

«Come posso ringraziarti?» gli chiese Gesù, quando ebbe finito.

«Con una grazia».

«Quale?»

Romeo ci pensò su un momento, poi disse:

«A casa mia ho una sedia sfondata. Vorrei che nel nome mio e nel nome di Dio, chiunque si sieda non si alzi più dal posto mio».

«Così sia» disse Gesù.

Ma S. Pietro, insoddisfatto della strana richiesta, sibilava:

«Chiedine un'altra, chiedine un'altra. Ma che sia una grazia!»

Allora Romeo ci pensò su un momento e disse:

«A casa mia ho un albero di fichi. Vorrei che nel nome mio e nel nome di Dio chiunque salga sull'albero mio non se ne stacchi fino a quando dico io». «Così sia» rispose Gesù.

Ma S. Pietro sempre più indispettito, insisteva.

«Chiedine un'altra, un'altra ancora. Ma che sia una grazia vera».

E Romeo:

«Io ho un vecchio tascapane. Vorrei che, nel nome mio e nel nome di Dio, qualunque cosa finisse nel tascapane mio non esca più finché non lo dico io».

«Così sia» disse ancora Gesù.

«Ecco, ora non puoi chiedere più niente. Hai bruciato tre grazie senza nemmeno chiedere la salvezza dell'anima. Potevi assicurarti il paradiso e invece ora...» lo redarguì S. Pietro, molto irritato per quello spreco di grazie che Romeo aveva fatto.

Così si separarono. Ognuno andò per la sua strada: i dodici apostoli al seguito di Gesù e Romeo verso casa sua.

Giunto in un paese, avendo ormai molta fame e più nulla per saziarla, andò dal governatore della città e gli chiese un tozzo di pane. Ma costui, che era un uomo cattivo, amico di Satana, aveva una casa piena di diavoli che ammazzavano chiunque ci metteva piede. Egli, non appena poteva, mandava gente in quella casa per darne l'anima ai demoni e tenerseli sempre amici. Perciò disse a Romeo:

«Ti dò qualcosa da mangiare, ma stanotte devi andare a dormire nel mio palazzo. Ecco le chiavi».

Romeo fu ben contento di avere un luogo dove riposare. Prese dimora nel palazzo e vi trovò tanta farina. Pensò bene di impastarla per farne delle frittelle. Ma mentre le friggeva, sentì nella cappa della cucina una strana voce che diceva:

«Mi butto? Mi butto? Mi butto?»

Romeo guardò dentro e vide un diavolo. Non se ne spaventò per nulla e continuò indifferentemente a friggere le frittelle. E quello continuava: «Mi butto? Mi butto?»

Alla fine, spazientito, Romeo fece:

«E buttati e fottiti!»

Il diavolo, appena arrivato giù, cominciò a fare tante carezze a Romeo e a chiamarlo "compare mio, amico mio". Voleva la sua anima. Ma Romeo gli fece brusco: «Sì, ora siamo compari. Va' via, e lasciami mangiare in pace». Ma quello continuava a molestarlo. Allora Romeo disse:

«Nel nome mio e nel nome di Dio, nel tascapane mio».

Pluff: il diavolo in un attimo finì nel tascapane di Romeo che se lo tenne ben chiuso.

Dopo un po' sentì nuovamente nella cappa del camino:

«Mi butto? Mi butto? Mi butto?» Prima Romeo ostentò indifferenza. Poi non ne potette più.

«E buttati e fottiti» fece al secondo diavolo che, anche lui, cominciò a corteggiarlo e a molestarlo per prendergli l'anima. Allora Romeo:

«Nel nome mio e nel nome di Dio, nel tascapane mio!»

Doppio pluff! Anche il secondo diavolo finì rinserrato nel tascapane miracoloso.

Finalmente indisturbato, Romeo terminò la sua cena e andò a dormire tranquillo. Il mattino dopo, il governatore malvagio mandò un suo servo con una bara a prelevare il cadavere di Romeo che era certo fosse morto di paura, davanti ai diavoli che infestavano la sua casa. Ma a morire di paura per poco fu il suo servo, quando si vide ricevuto da Romeo sulla soglia del portone, con queste parole:

«Bé, da servo sei diventato beccamorto?»

Quello fuggì inorridito e andò a riferire al suo padrone che il cadavere che doveva prelevare aveva parlato! cioè era vivo.

Il governatore non ci credeva: era la prima volta che qualcuno sfuggiva alla sua trappola infernale. Allora volle andare a rendersene conto personalmente. Quando vide Romeo vivo e vegeto e tranquillo, gli propose di restare in quel palazzo una seconda notte. Romeo accettò.

E di nuovo la notte sentì la voce diabolica:

«Mi butto? Mi butto? Mi butto?»

«E buttati e fottiti» fece Romeo.

Era addirittura il capo di tutti i diavoli. Belzebù in persona che voleva accaparrarsi l'anima di Romeo.

Ma anche a lui Romeo disse:

«Nel nome mio e nel nome di Dio, nel tascapane mio».

Adesso erano tre diavoli nel tascapane di Romeo e ci stavano stretti. Scalpitavano, litigavano, scalciavano. Romeo infastidito da tutto questo baccano prese una grossissima mazza e gliene suonò di santa ragione. Fu una mazziata tremenda, anche per i diavoli. Così, quando il mattino dopo il governatore mandò di nuovo il suo servo con la bara, Romeo spalancò il portone e lo ricevette con una grossa risata.

Di nuovo il servo fuggì, di nuovo il governatore venne a vedere personalmente. Trovò la sua casa liberata dai diavoli per merito di Romeo e così, non sapendo più cosa farsene, la regalò a Romeo che, prima di andare a prendere la sua famiglia per stabilirsi in quella nuova dimora, volle esplorarla tutta, fino nei sotterranei, dove trovò una montagna di monete d'oro. Allora ne riempì tanti sacchi, li caricò su un traino e se li portò al suo paese. Appena arrivò a casa, gli venne incontro la moglie in lacrime:

«Marito mio, dove sei stato tanto tempo. Noi stiamo morendo di fame». «Non piangere più. Sono finiti i guai. Ora siamo ricchi»

E infatti col denaro della casa dei diavoli comprarono casa, palazzi, terreni e vissero una lunga vita serena. I loro figli crebbero, si sposarono, ebbero i loro figli. Gli anni passavano e, come spesso succede, Romeo ebbe anche il dispiacere di vedere morire i suoi figli prima di lui.

Fino a quando un giorno anche alla sua porta bussò la Morte; aveva il cranio bianchissimo, le orbite vuote, un nero mantello che la copriva dalla testa ai piedi, una grande falce in mano.

«Cosa vuoi?» le chiese Romeo senza spaventarsi.

«E' giunta la tua ora. Devi venire con me».

«Tu sai cosa ho patito nella vita. Lasciami stare ancora un po'».

«No, Romeo. La Morte non torna mai».

«Almeno dammi il tempo di vestirmi come le circostanze richiedono. Intanto tu vatti a fare una mangiata di fichi là fuori».

«Va bene. Questo è possibile».

Così Romeo fece mostra di andare a vestirsi con l'abito buono e la Morte salì sull'albero a mangiare i fichi.

«Nel nome mio e nel nome di Dio, da quell'albero non ti stacchi fino a quando dico io».

Come Romeo ebbe pronunciato queste parole, la Morte restò come paralizzata. Non riusciva più a muoversi, appiccicata com'era a quell'albero miracoloso. Solo gridava:

«Fammi scendere, fammi scendere!»

«Se vuoi scendere, mi devi dare altri dieci anni di vita».

«Va bene; vado a dirlo lassù».

Romeo la fece scendere dall'albero e la Morte andò in cielo e riferì a Gesù la richiesta di Romeo. Sorridendo il Signore acconsentì.

Dopo dieci anni la Morte tornò da Romeo, che le disse:

«Va bene, vengo. Ma siediti su questa sedia finché io mi preparo». La Morte si sedette. Romeo sottovoce pronunciò la formula magica:

«Nel nome mio e nel nome di Dio non ti alzi più dal posto mio».

Appena si fu preparato, tornò dalla Morte e le disse:

«Possiamo andare ora».

Quella fece per alzarsi ma restò attaccata alla sedia.

«Io non riesco più ad alzarmi!» esclamò la morte indispettita, mentre tentava disperatamente di staccarsi la sedia fatata dal sedere.

«Se vuoi alzarti devi darmi altri 10 anni di vita» disse Romeo.

«Va bene. Vado a dirlo lassù».

Andò da Gesù e anche questa volta lui, sorridendo, acconsentì alla richiesta di Romeo.

Quando passarono gli altri 10 anni, la Morte tornò da Gesù e disse: «Io da Romeo non ci vado più. Mi ha beffato per ben due volte. Basta. Che se ne venga quando vuole».

Così Romeo non moriva mai. Insieme alla moglie diventò vecchissimo, canuto, pieno di rughe e con una barba lunghissima. La sua vita andava avanti per anni e secoli.

Ma un giorno cominciò a sentirsi stanco di una vita così lunga. Ormai non aveva più né figli né nipoti né pronipoti né amici. Non conosceva più nessuno. Era sempre solo. Disse a sua moglie:

«Ce ne andiamo?»

Se ne andarono a braccetto, tutti e due, diritti diritti in Paradiso. «Toc-Toc» bussarono.

«Non c'è posto» risposero.

Allora lemme lemme, se ne andarono al Purgatorio.

«Toc-Toc» bussarono.

«Non c'è posto» risposero; non restava che cercar posto all'Inferno. «Toc-Toc» bussarono.

«Chi siete?» risposero.

«Romeo e la moglie».

Gran trambusto fra i diavoli:

«Questo è quello che ci ha dato quella gran mazziata. Ce la ricordiamo ancora. Apriamogli, altrimenti è capace di darcene un'altra».

Li fecero entrare e li lasciarono tutti e due in un angolo. Ma un giorno occorreva legna per alimentare il fuoco dell'Inferno. Allora gli dettero un mulo e lo mandarono in un bosco a far legna. Ma questo mulo a metà strada s'impuntò e non voleva più andare avanti. Allora Romeo prese la frusta e cominciò a sferzarlo. Ed ecco che il mulo parlò.

«Non picchiarmi, ti prego non picchiarmi. Io sono il comandante che ti negò i 900 ducati!»

«Ah, sei tu, brutto ladro disonesto» e giù botte da orbi. Poi lo caricò di tanta pesantissima legna e lo riportò all'Inferno.

«Questo è il tuo posto» disse.

Il giorno dopo di nuovo lo mandarono a far legna in un bosco, dandogli un asino. Anche quell'asino s'impuntò e Romeo lo frustò. Ma l'asino parlò e disse:

«Non farlo, io sono tuo padre».

Allora Romeo gettò la frusta, lo abbracciò, lo baciò e non gli fece portare addosso nemmeno uno stecco di legna.

I diavoli non osarono punirlo perché lo temevano.

Provarono la terza volta a mandarlo nel bosco, dandogli un'asina; ma anche questa parlò:

«Io sono tua madre, Romeo».

Allora tornò all'inferno e decise:

«Questo non è posto per noi».

Prese madre, padre e moglie e tornò al Purgatorio:

«Non c'è posto per voi» gli fu risposto.

Salì più su fino ad arrivare al Paradiso. Bussò e gridò, disse il suo nome. Gesù lo sentì e disse a S. Pietro:

«Va' ad aprire a Romeo».

San Pietro andò, ma tornò subito indietro per dirgli:

«Maestro, Romeo non è solo. Ha con se altre persone. Dove le mettiamo? Non abbiamo posto in Paradiso».

«Quando noi mangiammo il suo pane - rispose Gesù - eravamo in dodici. Loro sono soltanto in quattro. Che entrino».

Le porte del Paradiso si spalancarono e i suoi familiari entrarono nella gloria del Signore.

 

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