AUTORE

LEONARDO ANGELINI

Leonardo (Dino) Angelini, nato a Locorotondo, il 17.7.1944, vive e lavora a Reggio Emilia. Di professione psicologo (Dirige il Consultorio Giovani (OPEN G) della provincia di Reggio Emilia), si interessa di problemi dell'età evolutiva. Oltre al lavoro sulle fiabe locorotondesi, è autore di vari altri testi. Il più vicino, per argomento al lavoro sulle fiabe è:


Angelini
"Affabulazione e formazione. Docenti e discenti come
produttori e fruitori di testi
", UNICOPLI, Milano, 1998.


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CHI RACCONTA LE FIABE

a) Dal ricordo al progetto

 

"Nononno Maschio" nel mio ricordo, infatti, è prima di tutto associato alle fiabe, alle "storie", così lui le chiamava, ed in special modo alle "storie di Tetè".

Queste storie, in verità, a guardarle adesso con gli occhi di adulto (che, per mestiere, lavora con i bambini e che quindi deve "farsi una cultura" sul loro modo di sentire e di comunicare), queste "storie" - dicevo - non sono delle vere e proprie fiabe, ma, se proprio vogliamo dar loro una denominazione, dei fatti rammentati, che al contrario delle fiabe si riferiscono a fatti realmente accaduti, a personaggi (Tetè, lo Zoppo, etc.) realmente esistiti, ma che, come vedremo meglio dopo, nella cultura Locorotondese hanno (o, almeno, hanno avuto) una funzione simile, anche se non proprio uguale, a quella della fiaba.

Il ricordo che ho, per essere più precisi, è quello di mio nonno che d'inverno, intorno ad un braciere, racconta a me ed ai miei fratelli delle fiabe o delle "storie di Tetè".

Ricordo che noi lo ascoltavamo "a bocca aperta", anche se lui ripeteva sempre le stesse storie; ed infine ricordo che queste storie lui le raccontava in dialetto, anche se mio padre avrebbe preferito che noi bambini si parlasse in italiano pure quando si era in casa.

Ora, problematizzando ogni aspetto di questo ricordo, otteniamo una serie di punti interrogativi la cui risoluzione ci aiuta a comprendere meglio cosa sono le fiabe, quali funzioni esse assolvono nelle diverse culture ed a quali bisogni tendono a dare una risposta.

Cosicché le domande che, via via, mi porrò, interrogandomi sulle fiabe raccolte a Locorotondo nelle estati dell'82 e dell'83, sono le seguenti:

- Chi racconta le fiabe?

- Qual è il luogo e quali sono le condizioni in cui avviene il racconto?

- A chi le fiabe sono dirette?

Qual è il rapporto fra fiaba, novella, fatto rammentato etc.?

Quali meccanismi di identificazione permettono l'ascolto "a bocca aperta" da parte del bambino?

- Per quale ragione il bambino sembra non stancarsi mai dell'ascolto delle fiabe?

- Ed, infine, per quale ragione le fiabe ci riconducono così velocemente alla nostra "lingua madre"?

Per giungere poi a formulare una ipotesi sul significato cultural-specifico delle fiabe locorotondesi e, più in particolare, sulle differenze tra fiabe ascoltate in paese ed in campagna, nonché tra fiabe che hanno come protagonista un eroe e fiabe incentrate intorno alla figura di una eroina.

Seguirà per ultima una rapida esposizione dei problemi metodologici incontrati ed un altrettanto rapido commento ai problemi derivanti dalla trascrizione e dalla traduzione dei testi.

Prima di rispondere alla prima di queste domande mi sembra opportuno, però, vedere brevemente quale tipo di ricerca le fiabe hanno sollecitato in ambito letterario e scientifico, quale tipo di interesse esse hanno suscitato, oltre a quello più diretto e "legittimo", e cioè oltre a quello che da sempre hanno nutrito nei loro confronti i bambini di ogni paese e di ogni contrada. 

In ogni caso è sempre possibile fare una distinzione fra fabulare "inteso come dimensione naturale della cultura di determinati livelli sociali" ed un fabulare più "criticamente consapevole di usare materiali della favolistica tradizionale" (Buttitta, 1979, p. 112).

Il recente invito di Livia Beduschi (1985) ad analizzare la fiaba come un testo letterario appartenente alla tradizione orale va proprio in questo senso: la necessità di ristudiare il rapporto della fiaba con gli altri generi della tradizione orale (Sauga, 1985) e quello fra fiaba e generi della tradizione letteraria scritta, alla luce delle più recenti acquisizioni degli studi antropologici e demologici.

Da un certo punto in poi, a fianco e dentro questo processo di contaminazione reciproca fra alto e basso, fra oralità e scrittura, nasce un altro interesse per la fiaba, di carattere non più letterario, ma scientifico.

In Europa e soprattutto nei paesi del Nord tale interesse ha inizio ai primi dell'Ottocento ed è originato dall'esigenza, propria della cultura tedesca di definire un terreno unitario, fatto di lingua e di tradizioni, in cui la costruenda nazione tedesca potesse riconoscersi (Richter, 1980).

Da allora è possibile riscontrare un continuo emergere di teorie sulle fiabe che sono collegate alle più varie esigenze di natura ideologica (Buttitta, 1979, pag. 107/125), per cui alla metà degli anni '50 Italo Calvino (1981), nell'introdurre la sua fondamentale raccolta "Fiabe italiane", così si esprimeva in proposito: "... Per i Grimm era lo scoprire i frantumi d'una antica religione della razza, custodita dai volghi, da far risorgere nel giorno glorioso in cui, cacciato Napoleone, si risvegliasse la coscienza germanica; per gli indianisti erano le allegorie dei primi ariani, che, stupiti dal sole e dalla luna, fondavano l'evoluzione religiosa e civile; per gli 'antropologi' gli oscuri e sanguinosi riti d'iniziazione dei giovanotti delle tribù, uguali nelle foreste di tutto il mondo tra quei padri cacciatori ed ancor oggi fra i selvaggi; per i seguaci della 'scuola finnica' delle specie di coleotteri da classificare e incasellare, ridotte ad una sigla algebrica di lettere e cifre, nei loro cataloghi - il Type-Index e il Motif-Index - e nei loro tracciati delle fluttuanti migrazioni fra i paesi buddistici l'Irlanda ed il Sahara; per i freudiani un repertorio d'ambigui sogni comuni a tutti gli uomini, rubati all'oblio dei risvegli e fissati in forma canonica per rappresentare le paure più elementari. E per tutti gli sparsi appassionati di tradizioni dialettali l'umile fede in un dio ignoto, agreste e familiare, che si cela nel parlare dei paesani".

Ora, rimandando al testo di Buttitta chi volesse approfondire l'indagine sul significato ideologico che queste interpretazioni, via via, assumono, quello che ci preme sottolineare qui è questa ulteriore scissione, avvenuta negli ultimi due secoli, tra fruitore acritico ed "in situazione" (Milillo, 1983) della fiaba e studioso del "fenomeno-fiaba" non più solo da un punto di vista letterario, come era avvenuto "da sempre" nella cultura Europea, ma anche da un punto di vista scientifico.

Questo passaggio da ascoltatori ad osservatori, in fondo, a ben guardare, avviene in ciascuno di noi allorché abbandonando, come vedremo meglio più avanti, le regole tacite in base alle quali il racconto fiabesco ci prende, ci poniamo in una posizione critica e "trattiamo" la fiaba come un fenomeno da studiare, ma anche da allontanare, da sminuire, da deridere, etc.

Ebbene il secondo problema, per chi in Italia si ponga sul piano della ricerca, è proprio quello di comprendere come mai la nostra cultura, che pure aveva prodotto la raccolta seicentesca del Basile (1986), quelle ottocentesche del Pitrè, dell'Imbriani etc., abbia accumulato (sicuramente fino all'epoca dello scritto di Calvino, ma anche in seguito) tanto ritardo nel definire un interesse scientifico per la fiaba.

Come mai la ricerca in ambito antropologico e demologico nel nostro Paese abbia così a lungo tralasciato di studiare questa forma della narrativa popolare italiana pur trovandoci, come afferma D. Richter (1980), in un contesto dotato ancora di una tradizione orale vivente e ricco di culture popolari decentrate che più facilmente, per la loro eccentricità, possono custodire tradizioni orali di ogni sorta.

La risposta che sembra dare Cirese (1980) a questa domanda è nella posizione assunta da B. Croce sulla fiaba: posizione "negatrice degli indirizzi comparativi" e affermatrice delle fiabe come "organismi poetici", e cioè come testi a sé stanti che non val la pena paragonare ad altri testi né sul piano "geografico" (le "fluttuanti migrazioni" della scuola finnica), né su quello storico (i rapporti col mito, col poema cavalleresco, con la letteratura colta, etc.) .

Cosicché, mentre in tutta Europa, per le diverse ragioni analizzate dal Buttitta (1979), fervono le ricerche e le analisi sulle fiabe, in Italia ciò non accade e viene privilegiata la ricerca antropologica e demologica sul canto popolare che, nella sua forma "chiusa" e cioè "fissa" da un punto di vista metrico e musicale permette un più sicuro confronto fra i due poli della opposizione romantica - prodotto popolare, contro prodotto "d'arte" - che nell'estetica crociana trovano invece, afferma Cirese (1980), un più preciso spazio.

Intanto dall'epoca in cui Calvino scriveva la sua introduzione molta acqua è passata sotto i ponti, anche per gli studiosi ed i ricercatori italiani che si interessano delle fiabe.

Innanzitutto, per limitarci all'essenziale, vi sono due filoni di analisi specifica del fenomeno - fiaba che, dalla metà degli anni '50 ad oggi, si sono espansi caratterizzando in maniera del tutto nuova la ricerca sulle fiabe: quello strutturalista e quello psicoanalitico.

Per quanto attiene al primo filone, quello strutturalista, occorre dire che esattamente dieci anni dopo l'uscita della raccolta di Calvino, e con un enorme ritardo rispetto alla edizione originale (che è del 1928), ma anche rispetto alla traduzione inglese che è del 58, viene tradotto in italiano il libro di V. Propp (1966) "Morfologia della fiaba".

Questo testo, che, come è noto, assunse subito una grande importanza da un punto di vista metodologico non solo nei confronti delle fiabe, ma più in generale nel più vasto ambiente dell'antropologia strutturalista, è fondamentale nel definire una griglia interpretativa delle fiabe, per ciò che concerne l'analisi della struttura dei testi narrati.

Propp ci permette di comprendere che, al di là della grande varietà di personaggi, di luoghi e di situazioni, in ogni fiaba è possibile riscontrare alcune costanti.

Tali costanti si possono assemblare in maniera diversa, possono esser presenti tutte insieme o solo in parte in ciascuna "storia", si possono intrecciare in maniera più o meno complicata, possono essere più o meno iterate, ma in ogni caso, secondo Propp: 1) si presentano come analoghe a livello strutturale in tutto il mondo; 2) provengono - dappertutto - dal mondo contadino; 3) sono imparentate con i miti e con i romanzi cavallereschi.

Sempre in ambito strutturalista, e col solito ritardo (l'edizione originale è del 1947) viene tradotto nel '79 il libro di Max Lüthi "La fiaba popolare Europea" che si pone su di un piano di complementarietà con le analisi di Propp e che mira a definire meglio le caratteristiche in base alle quali è possibile riconoscere una fiaba e distinguerla dagli altri generi della letteratura popolare europea.

Propp aveva individuato delle costanti; Lüthi cerca di vedere secondo quale stile queste costanti si presentano nel testo fiabesco in modo tale che sia possibile definire una "forma di base comune" delle fiabe europee. Ed è il carattere di astrattezza delle fiabe che, in una parola, connota questo genere in termini univoci e distinti dagli altri generi della narrativa popolare.

L'analisi strutturalista ci permette, in conclusione, di cogliere, in termini scientifici, ciò che sta alla base di quella sensazione di univocità di storie, di circostanze, di intrecci che si sente sempre quando si confrontano le fiabe di luoghi e di tempi diversi. Quel tratto comune che in molti - come testimonia Calvino - avevano intuito, ma che nessuno era riuscito a cogliere in termini esaustivi.

Altri dieci anni dopo, nel 1977, viene tradotto in italiano un testo, "Il mondo incantato" di B. Bettelheim, che è altrettanto importante per una analisi delle fiabe.

E se Propp e Lüthi ci permettono di cogliere le analogie che esistono a livello della struttura del testo narrato, Bettelheim ci spinge a vedere quali analogie vi sono fra i messaggi che le varie fiabe indirizzano all'inconscio del bambino.

Già Freud, Abrabam, Jung, Roheim e Fromm, in passato avevano messo in luce il rapporto fra sogno, mito e fiaba, Bettelheim va avanti rispetto alle analisi di questi psicoanalisti, incontrando la sua attenzione su quella che lui chiama funzione abreatoria, cioè liberatoria della fiaba.

La tesi di Bettelheim è che il bambino e, in passato, lo stesso adulto hanno bisogno delle fiabe poiché esse aiutano a convivere in maniera plastica con il proprio inconscio senza esser schiacciati dalla pesantezza dei moti pulsionali angoscianti che da esso provengono.

Le fiabe, cioè, secondo Bettelheim, esercitando una funzione liberatoria (che spinge verso la crescita psicologica) permettono al bambino di affrontare "le gravi difficoltà della vita" senza ritrarsi di fronte ad esse, ma affrontandole risolutamente sempre più fiducioso nei propri mezzi, e cioè conscio delle proprie capacità, ma anche dei propri limiti (penso che la storia di "Cudícchie" e la "mucca zoppa" (fiaba-cardine fra quelle finora raccolte a Locorotondo: finora ne sono state registrate 4 versioni) sia emblematica da questo punto di vista).

L'alternativa fra crescere e rimanere piccoli, fra la paura dell'ignoto e la fiducia nelle proprie capacità, fra la paura della morte e la fiducia nella vita, fra l'odio e l'amore, fra la distruttività e la creatività, fra l'invidia e la gelosia da una parte e la capacità di riparazione dall'altra, a tutte queste alternative angoscianti le fiabe danno una risposta che va nel senso di un aiuto a crescere, ad avere fiducia in se stessi.

E, cosa più importante, questo aiuto non viene sotto la forma di precetti morali (come è, invece, nel caso della favola, ma attraverso un processo di identificazione con il personaggio principale: quasi sempre un bambino o un ragazzo che all'inizio sembra debole e pauroso, ma che alla fine, proprio come nel caso di Cudícchie, trionfa, perché osa affrontare le difficoltà della vita).

In secondo luogo il Convegno di Studio sulla fiaba tenuto a Parma nel 1980 (Cirese , 1980) e la recente pubblicazione di un numero de "La rivista folklorica" (1985) interamente dedicato alla fiaba Beduschi, 1985) testimoniano di un nuovo interesse della nostra cultura per questo genere della narrativa orale popolare, suffragato da una serie di contributi fra i quali importanti ci paiono innanzitutto quello di Aurora Milillo (1983), soprattutto per quel che concerne il rapporto fra fiaba ed altre forme del narrare orale e, più in generale, fra narrazione orale e contesto in cui la narrazione si situa; in secondo luogo il testo della Boccardi Storoni (1984) che usa le chiavi interpretative dell'analisi junghiana per scandagliare a fondo un testo scritto (la fiaba di "Cupido e Psiche' presente nell'opera di Apuleio "L'asino d'oro") che può essere inteso, parafrasando Rak (1980), come un primo lavoro di ascolto, avvenuto duemila anni fa, di quella trama sempre in movimento fra oralità e scrittura, fra alto e basso, che dà origine a qualsiasi forma di narrazione.

Infine importante ci è sembrata la introduzione di G. B. Bronzini (1983) alla raccolta "Fiabe Pugliesi" sia per le considerazioni generali che contiene sulla fiaba, sia per le cose che in particolare si dicono sulle fiabe dell'area culturale più specifica in cui la presente ricerca si pone.

Infine occorre dire che, oltre questi ambiti di ricerca specifica sulla fiaba, vi sono altri tipi di studio e di indagine che si sono sviluppati in Italia nei venticinque anni che ci separano ormai dalla raccolta di Calvino.

Innanzitutto la ricerca stenografica, sotto l'impulso della stenografia francese ed inglese, ha superato ormai il ritardo al quale era stata condannata, insieme a tutte le altre scienze umane, dall'approccio idealistico crociano e ha cominciato ormai da tempo a scandagliare i piccoli fatti di vita quotidiana, ad interessarsi in maniera più interdisciplinare ai fenomeni culturali.

Per cui vi è oggi una crescente massa di studi di antropologia storica (e di storia antropologica), ad es., che permette un approccio metodologicamente fondato ai problemi che insorgono quando - ed è il nostro caso - ci si trova di fronte ad una ricerca che si basa prevalentemente su testimonianze orali e che, per di più, è volta a definire delle ipotesi su aspetti della sociabilità (Gemelli, Malatesta, 1982) che non sono suffragati dalla solare certezza dei dati.

In secondo luogo lo sviluppo della sociolinguistica permette di vedere con maggiore approssimazione cos'è che "si cela nel parlare dei paesani", se è solo "l'umile fede in un dio ignoto, agreste e familiare", come, con una punta di ironia diceva Calvino, oppure qualcosa di più preciso che magari si possa ascrivere ai molteplici processi acculturativi che sono avvenuti nei secoli, così come è possibile dedurre oggi dall'analisi delle testimonianze verbali (tenendo presente che l'acculturazione è sempre un fenomeno che provoca delle incrostazioni e dei sedimenti di tipo linguistico).

Ecco, penso che seguendo tutti questi freni in maniera interdisciplinare sia possibile oggi ridefinire in maniera più critica l'universo delle fiabe.

Con ciò non voglio dire né che ogni interpretazione che esuli da questi apporti sia illegittima, né che mi proponga di svolgere io una ricerca organica di tal fatta.

Ma più semplicemente che: a) una indagine sulle fiabe oggi, poggiando su di un terreno più solido e più esplorato, permette a chiunque di approfondire questo o quell'elemento, di avanzare questa o quella ipotesi, senza il timore di andare fuori strada all'inseguimento di ipotesi senza costrutto. E che: b) per quanto mi riguarda, il tentativo che mi sono proposto, cominciando nell'82 una ricerca sulle fiabe locorotondesi, è semplicemente quello di indagare sugli elementi di diversificazione che si presentino nelle fiabe e di verificare quali rapporti ci sono fra queste diversità ed i diversi fini educativi della cultura paesana, rispetto a quella contadina.

c) Chi raccontale fiabe

L'impressione più profonda e più durevole che si ha non appena si inizia a fare una ricerca sulle fiabe è quella che viene dalla personalità di coloro che accettano di raccontarcele.

La sensazione che ho provato io (che poi ho scoperto essere del tutto simile a quella provata da altri ricercatori, in altri contesti socio-culturali) è quella di trovarmi di fronte a persone squisite, che sembrano avere dentro di sé il bisogno di raccontare, ma anche quello di raccontarsi le fiabe.

L'interesse degli informatori e delle informatrici (con questo brutto termine gli etnologi denominano coloro che accettano di comunicare al ricercatore notizie di prima mano sulla propria cultura), nella misura in cui costoro sono dei raccontatori di fiabe, - sembra concentrarsi su due "oggetti": il primo oggetto è, ovviamente, il bambino (il nipotino, il figlio, il bimbo dei vicini o dei parenti) al quale la fiaba viene, diciamo cosìverbalizzata.

Il secondo "oggetto" non è propriamente un oggetto esterno al raccontatore di fiabe, ma qualcuno che, usando un linguaggio più tecnico, potremmo definire come un "oggetto interno" e che - in parole più semplici - potremmo indicare come una parte di se stessi, oppure il Sé del raccontatore in tutta la sua intierezza (Jacobson, 1974).

Ma perché coloro che raccontano le fiabe sentono questo bisogno che, come abbiamo visto, è un doppio bisogno (di dire e di dirsi delle cose)?

La risposta a questa domanda ci conduce già nel cuore delle problematiche sulla fiaba.

Come abbiamo visto, secondo la psicoanalisi la funzione della fiaba è quella di favorire una "igiene mentale" del bambino, e cioè quella di spingerlo a superare le paure e le angosce che vengono a lui dalla propria istintualità, ed a trasformare questi contenuti antisociali in istanze culturalmente accettate e corrispondenti, anzi, alle aspettative di coloro che sono già stati socializzati: e cioè del mondo degli adulti e, più in generale, dei più grandi.

Così, ad esempio, Cudícchie, ed il bambino che in Cudícchie si identifica, passerà da un vissuto delle proprie possibilità di crescita e di autonomizzazione che inizialmente è uguale a zero, ad un vissuto finale in cui - grazie ad un coraggioso utilizzo delle proprie risorse - lui (ed il bambino piccolo insieme a lui) può ritrovarsi ricco, di una ricchezza che nelle fiabe è sempre spirituale, prima che materiale, e sicuro di sé. Mentre i fratelli, che nella fiaba simboleggiano le parti onnipotenti del bambino, continueranno a muoversi dall'inizio alla fine nell'illusione che la vita offra facili vie di uscita, e perciò non cresceranno (questo è ben messo in luce nella fiaba dalla rapidità, dalla irriflessività con cui dicono: "I spìzze i jarnme a i vacche noste!" "I accìte i migghière noste!" "I attàcchene nèggue!").

Ecco, la crescita reale contro la pseudocrescita, la visione realistica dei propri limiti e delle proprie capacità contro la permanenza in un mondo in cui in alcuni momenti ci si sente onnipotenti, in altri "zero via zero". Questo è il messaggio (questo è uno dei tanti messaggi) che Cudícchie invia al bambino e che il bambino raccoglie, identificandosi in lui, e non nei fratelli tronfi e creduloni.

Ne consegue che l'adulto che racconta le fiabe svolge un ruolo che, dal punto di vista dell'"igiene mentale", è allo stesso tempo preventivo e "terapeutico".

 
  1.  nel senso che offre attraverso la fiaba una risposta "che va diritta al cuore" (e che perciò risulta più efficace di quella più moralistica che proviene dalle favole) ai vari problemi, connessi alle varie fasi della crescita, che sconvolgono il bambino.
 

"Terapeutico" perché questa risposta, come sanno bene genitori e nonni che usualmente raccontano fiabe ai propri figli o nipoti, arreca dei benefici immediati che aiutano d bambino a superare i problemi attuali, anche se (come vedremo meglio in seguito) finché il problema non è risolto alla radice, il bambino avrà sempre bisogno che qualcuno gli racconti una fiaba che lo riconcili con se stesso e col mondo.

Ma allora cosa significa il fatto che, oltre al bambino, l'adulto che racconta le fiabe sembra che le dica anche a se stesse.

Beh! In primo luogo mi pare si possa dire che ciascun adulto che racconta "le storie" tenda intuitivamente (e cioè a livello preconscio) ad attribuire a se stesso un ruolo 'terapeutico', nel senso che, intuitivamente, il genitore che legge un libro di fiabe al proprio bambino, il nonno che racconta le fiabe al nipotino, eccetera, aiutano, attraverso la fiaba, i bambini a superare le paure e le angosce legate alla crescita.

E ciò non è roba da poco conto ove si pensi che queste paure, queste angosce sono quelle che poi si ripresentano in tutto il resto della vita; la paura di morire, di esser divorati, spezzettati, buttati a mare, di non essere potenti, di non essere realizzati, di "perdersi nel bosco" della vita, etc.

In secondo luogo l'adulto che racconta una fiaba non si limita a svolgere questo ruolo astrattamente 'terapeutico', ma si preoccupa di passare al bambino, con la fiaba, anche tutta una serie di contenuti che sono storici, specifici, particolari della cultura di appartenenza di quell'adulto che, perciò stesso, comincia, fin dall'inizio, a diventare anche cultura del bambino (che ascolta quella fiaba, e non un'altra, detta in quella lingua, e non in un'altra, che comunica quei contenuti "terapeutici', e non altri).

Questi contenuti, quindi, assolvono in generale la stessa funzione (liberatoria, "terapeutica') in tutte le culture, ma variano da società a società, a seconda di quelle che sono, in ciascuna cultura, le aree particolarmente esposte.

Per cui, ad esempio, nella cultura locorotondese la rivalità fraterna - come dimostra ancora una volta la "storia" di Cudícchie -è in primo piano per tutto un insieme di fattori storici, specifici, che rendono particolarmente esigenti i nostri bambini di una rassicurazione su questo piano. Ma ciò non toglie che in altre culture questo conflitto, ad esempio, non venga neanche menzionato, ed in sua vece ne emergono altri che nella cultura locorotondese non sono rilevanti.

Ciò significa, quindi, che le fiabe, oltre che un toccasana di fronte alla pesantezza per il bambino dei conflitti tipici dell'infanzia, sono anche un importante veicolo di definizione dell'identità culturale di un popolo, di un territorio.

In questo senso si può cominciare a comprendere meglio cosa intende dirsi il raccontatore di fiabe quando si pone sul piano del racconto: egli, nel definire con ciò l'ingresso del bambino nella cultura di appartenenza di entrambi, intende anche ribadire a se stesso l'appartenenza a quella cultura.

Ma, se questo è vero, ne consegue, infine, che una società, una cultura che non ha più bisogno di fiabe e di raccontatori di fiabe (o di qualcosa che svolga una funzione equivalente a quella delle fiabe) è anche una società che non ha più dentro di sé capacità autoterapeutiche e, cosa ancora più grave, una società che non si preoccupa più di trasmettere alle nuove generazioni una propria identità culturale.

Il signor Sarcinella una sera di Domenica di due o tre estati fa, mentre eravamo seduti davanti al suo trullo a San Marco, all'arrivo dei nipotini ch'erano venuti a trovare lui e sua moglie - nipotini ai quali non aveva mai raccontato neanche una di tutte le storie che mi aveva appena comunicato con una vividezza fuori del comune - mi disse: 'A loro le storie ormai le racconta la televisione'.

Ecco, come dice A. Milillo (1983), 'la parola folklorica è oggi lacerata e frammentata dai profondi rivolgimenti economici e sociali degli ultimi decenni, dalle crepe in essa aperte dall'emigrazione, dai mass-media, dai sismi, dalle trasformazioni delle tecniche agricole. Il tessuto della cultura popolare si è smagliato, le sue stesse modalità di produzione sono state sconvolte e modificate'.

Il problema è quello di vedere se funzioni autoterapeutiche e di trasmissione dei tratti della propria specificità scompariranno lasciando il posto ad una cultura egemone, quella dei mass-media, che tratti le culture "vinte" (Duprout, 1966) spargendo sopra di esse il sale come i Romani con le rovine di Cartagine; oppure se tali funzioni possono essere assunte da altri generi di "comunicazione collettiva".

Nel qual caso la fiaba sarebbe come un fiume carsico che, a un certo punto si inabissa, per riapparire poi sotto altre spoglie, e magari con un altro nome, con nuovi attori, in base a nuove 'occasioni', e secondo nuove 'cadenze', ma con le stesse funzioni.

Capitolo II

I LUOGHI ED I TEMPI DELL'AFFABULAZIONE

  1. a) La definizione del luogo

"D'inverno, intorno al braciere": questo era il luogo in cui solitamente venivano raccontate le fiabe.

Oggi questo luogo è apparentemente mutato: 'sulla sponda del letto, prima che il bambino si addormenti', così potremmo descriverlo - E potremmo aggiungere: 'con l'ausilio di un libro o, qualche volta, di un disco'.

Ad una analisi più attenta però le due scene non sono poi tanto dissimili. Infatti guardando alle due situazioni secondo un'ottica "strutturale" potremmo riconoscere in esse alcuni elementi di similitudine che, ai fini della definizione delle caratteristiche di fondo che permettono l'affabulazione, possono rivelarsi molto utili.

* Innanzitutto questo luogo è sempre un luogo raccolto, in cui tutti i personaggi presenti sulla scena possano essere a proprio agio.

 

In secondo luogo tutti i presenti devono condividere l'atmosfera particolare che avvolge d racconto; devono, cioè, lasciarsi affabulare (lasciarsi affabulare = lasciarsi avvolgere in una trama favolosa e illusoria).

* Da ultimo il sopravvenire di un qualsiasi evento che turbi l'atmosfera (l'arrivo di un adulto che non sia disposto a lasciarsi coinvolgere, o il sopraggiungere di un bambino troppo piccolo che con il suo pianto o le sue moine rompa l'incanto) viene percepito con un crescente fastidio che alla fine diventa insopportabile e produce l'interruzione del racconto.

Insomma, intorno al braciere o sulla sponda del letto, davanti alla porta di casa o in automobile, con o senza l'ausilio del libro (o del disco), in un rapporto raccontatore bambino che sia diadico o di gruppo, queste tre componenti "strutturali" devono essere presenti affinché possa avvenire il racconto.

Cosa significa questo fatto?

Affinché il lettore possa seguirmi con più facilità nelle cose che sto per dire vorrei ora riferire ciò che accadde proprio alla signora Pasqua Lorusso, una delle mie più "ricche" informatrici.

Ebbene la signora Pasqua, che in un pomeriggio di due o tre estati fa mi aveva già raccontato due "storie", l'indomani mattina non si è alzata dal letto, ma si è messa a pensare, si è lasciata andare… e così ne ha ricordato altre 4. Quando nel pomeriggio di quel secondo giorno mi ha riferito quest'episodio mi ha detto anche che a nulla era valso il brontolio del marito perché in quella posizione e "con quelle storie in testa era stata molto bene".

Cos'è che aveva permesso alla signora Pasqua di venir meno, per una volta, ai suoi obblighi di casalinga e di lasciare venire a galla tutte quelle storie suadenti e colorate che l'avevano fatta star bene e che in quel pomeriggio poi finì di raccontarmi?

Intuitivamente (a livello preconscio) ella aveva compreso che, una volta messe da parte le reticenze che impediscono l'emergere di contenuti "perturbanti", è possibile - in determinate circostanze - permettere che per qualche tempo quei contenuti, che da bambini un po' avevamo temuto, un po', quasi ipnotizzati, avevamo insistentemente ricercato, ritornino a livello cosciente (Freud, 1977).

Ed è possibile soprattutto che, una volta superato il "rispetto umano" che ci lega e ci impedisce di tornare per un momento bambini, tali contenuti ci aiutino (come ci aiutarono nella nostra infanzia) a sentire quello che avviene dentro e fuori di noi.

A sentirlo con una sensibilità diversa da quella enfaticamente centrata sulle funzioni adattive dell'Io che solitamente si acquisisce divenendo adulti nella nostra società.

A sentirlo cioè col sapere che viene dalla frequenza di quei territori che tutti prima o poi abbiamo attraversato, che tutti riattraversiamo diventando genitori e rispecchiandoci nei nostri figli, che alcuni (e fra questi, insieme agli artisti e agli scrittori, ci sono i raccontatori di fiabe) continuano a calcare di tanto in tanto per star bene e per aiutare a star bene coloro che, come i bambini, sono nel mezzo di quei territori pieni di paura, ma anche desiderosi di procedere e di conoscere.

Questa disposizione a lasciarsi andare, a lasciarsi avvolgere in una trama favolosa ed illusoria, questo porsi in un luogo raccolto, questo resistere ad ogni turbamento che rischi di rompere l'incanto, questi cioè che abbiamo visto essere i contorni che definiscono lo spazio in cui la fiaba si pone, sono quindi le coordinate in cui si pone il luogo in cui l'adulto, il raccontatore (come dimostra l'esempio della nostra informatrice) possa liberamente e giocosamente regredire, ed il bambino naturalmente identificarsi con il personaggio principale, con l'eroe.

Ma questo 'mondo incantato', come ogni mondo che si rispetti, a fianco alle strane mappe che definiscono la sua fluttuante e precaria spazialità, presenta anche una dimensione temporale che è altrettanto importante nel definire i propri confini, la propria esistenza.

"C'era una volta" si dice nella lingua italiana, e nel dialetto locorotondese icasticamente si sottolinea 'jére na vòlte, i jére...'.

Consideriamo con attenzione quest'inizio e con occhio 'disincantato" - La rottura dell'incanto per un momento ci sia consentita. Solo così infatti potremo distanziarci dalla forza ammaliatrice della fiaba e vedere criticamente le vicende, i personaggi, le storie, che fino ad un momento fa ci avevano incantato, come elementi che vengono fuori da una cultura che li ha plasmati, da una tradizione che li ha cullati (ciò che nei termini tecnici si chiama 'diegesi narrativa" della fiaba).

Ebbene la prima cosa che salta agli occhi è che questa diegesi, o questo racconto avviene all'imperfetto: si dice 'c'era una volta' e non 'ci fu una volta' (e neanche "c'è").

Inutile dire che tutto questo è pieno di significati.

Innanzitutto l'imperfetto è malandrino, nel senso che ci autorizza a mantenere in stato di perenne sospensione la risposta ad una domanda importantissima per il bambino che ascolta la fiaba, e che è: 'potrebbe ancora esserci?'. Potrebbero ancora esserci l'orco, la strega, Cudícchie, il figlio del pescatore, il mostro a sette teste, etc.?

A queste domande la fiaba non dà una risposta precisa.

Certo se le storie cominciassero con un "ci fu" la distanziazione in termini temporali sarebbe rigida, recisa. Ma questo non favorirebbe l'affabulazione perché rischierebbe ad ogni momento di venir meno l'illusione che permette il coinvolgimento, l'avvolgimento nella trama.

Se poi il racconto fosse incastonato in un "c'è" vi sarebbe il rischio opposto di essere inghiottiti nella trama, di non potersene distanziare. Il racconto allora si apparenterebbe troppo, e con pesanti rischi per il bambino, con il sogno (con il sogno vissuto, non con quello narrato che, anzi, secondo gli junghiani, addirittura può essere all'origine di molte fiabe) (Von Franz, 1980).

L'imperfetto cioè da una parte permette di evitare una distanziazione rigida dalla storia e cioè il rischio di dare ai quesiti che essa pone risposte del tipo "ci fu una volta, ora non c'è più" (la tal figura, il tal pericolo, la tale impresa ... ) ".

Dall'altra impedisce una visione di tipo allucinatorio che impaurirebbe il bambino poiché l'identificazione, la partecipazione in prima persona con l'eroe diventerebbero ineluttabili, così come ineluttabili sono i sogni nel momento in cui sono vissuti.

Cosicché il bambino (come ieri e avant'ieri l'adulto che ascoltava le "storie" e i miti) con quel marchingegno ("c'era una volta") che è parte costituente della diegesi narrativa (Scholes, 1985) della fiaba, può sempre mantenersi in uno stato di sospensione: mi identifico/non mi identifico; sono io/non sono io.

Tutto lo svolgimento della fiaba consegue da questa impostazione: per tutta la durata del racconto il tempo assume la dimensione ambigua dell'imperfetto e la fine della 'storia' è altrettanto diegeticamente strutturata (... "e vissero felici e contenti" si dice in italiano).

Spesso la diegesi narrativa della fiaba è ancora più scandita. Si legga la filastrocca che segna la fine della storia del "Serpente a sette teste', raccontata dalla signora Pasqua Lorusso!

(Originale)

Da sfurtunète, fu affurtunète
ca se peggbìò a regenèlle

ije ca scève appìrse
me rialàrene cingbe lire,
ca cinghe lire tanne jèrene assé!
allòre: nu sòlte ngiù dibbe a u jadde
i manùsse a cavadde
ca pe venì da ddé ddò
...
(ca ce stève ddò!!)

nu sòlte alla jáddìne,
i me désse a farìne!
ca stò mangie pène 
- Segnòre te
 rengràzzìe
i chir 'olte tré lire m'arrucchibbe,
pe besògne!

 

e questa è stata la mia fortuna!

[Traduzione)

- Da sfortunato divenne fortunato
che si sposò la reginella
- io che andavo con lui
ebbi in regalo cinque lire,
che cinque lire di allora erano tante!
- Allora: un soldo lo diedi al gallo
che mi portò a cavallo
ché per venire da lì fin qui...
(mica stavo qui!!)
- Un soldo alla gallina
e mi diede in cambio la farina!
ché sto mangiando pane, 
Signore ti ringrazio!
- e le altre tre lire le risparmiai
in caso di bisogno,

e questa è stata la mia fortuna!]

 Questa filastrocca segna un finale ben più incisivo e articolato del canonico "e vissero felici e contenti".

Un finale che ci fa vedere con calibrata misura tutti i passaggi che il bambino deve fare 'pe veni da ddé ddò", per venire cioè dal regno della fiaba, dal luogo della fiaba, "ddò" e cioè nel regno della realtà.

(Se volessimo fare un paragone con la diegesi filmica, è come una bella sequenza finale, cui segue la parola 'fìne', l'accensione delle luci e l'uscita dalla sala cinematografica.)

c) La fiaba, il sogno, il mito: quali luoghi, quali tempi

Erik Fromm (1973), in un suo lavoro intitolato 'Il linguaggio dimenticato', analizza i rapporti esistenti fra fiaba, sogno e mito.

Secondo Fromm, ciò che accomuna i 3 fenomeni è il fatto che espressivamente tutti e tre si presentano con un linguaggio simile, linguaggio che nella nostra società è divenuto indecifrabile a causa del prevalere di altre forme di comunicazione, di un altro linguaggio (il linguaggio del logos, contrapposto a quello del mythos) legato, in ultima istanza, al tipo di sviluppo che la civiltà occidentale ha avuto prima o poi in tutti i suoi ambiti (Vernant, 1981).

Niente di male se questa lingua, divenutaci estranea, servisse ad esprimere cose che non ci sono più. Il fatto è che però attraverso i miti, le fiabe e i sogni è possibile accedere alla comprensione delle emozioni più profonde dell'uomo, ed ecco che l'allontanamento da queste forme del sentire umano appare non come una perdita di poco conto, ma come un processo di impoverimento e di estraniazione da se stessi di ben più pesante portata.

L'allontanarci da questo sentire, la perdita di questi luoghi, il mancato ingresso in questa fatata macchina del tempo, cioè, ci spingono sempre più lontano da quel terreno comune di emozioni, sentimenti, vissuti che è l'essenza dell'umano sentire.

Ma questa distanza definisce anche una difficoltà, direttamente proporzionale alla distanza stessa, nella misura in cui si decide di intraprendere la via del ritorno.

Ritorno ad un sentire basato sul mythos, sull'empatia, ritorno in un luogo dimenticato, abbandonato, ritorno in una dimensione temporale ambigua, di sospensione.

 

Ed allora occorre essere molto guardinghi lungo questa strada, e soprattutto attenti agli strumenti interpretativi che si usano ed alla loro congruenza con i fenomeni che pretendono di spiegare.

E, per limitarci al tema che ci siamo dati abbiamo già visto, ad esempio, alcuni legami fra fiaba e sogno (vissuto e narrato).

Ciò però è solo uno dei tanti tratti in comune tra i due fenomeni - Fromm parla chiaro: il linguaggio è lo stesso. Non basta quindi scoprire qualche tratto in comune. Occorre trovare la chiave (o le chiavi) che aprano 'le porte del sogno' (Carloni, 1973) e delle fiabe, ed occorre soprattutto che tali chiavi siano quelle giuste per poter dire di aver "risolto" efficacemente il problema.

Ebbene, anche a voler limitare la nostra ricerca in ambito psicoanalitico, siamo già in un campo minato.

Per Jung l'autoconsapevolezza (cioè quel sentire di cui si parlava prima) si raggiunge attraverso la conoscenza di un inventario dei contenuti psichici, inconsci, repressi, inventario che si fa in base ad un campionario 'fisso' di simboli, diciamo cosi, transpersonali.

Per Freud, (1968) invece, l'autoconsapevolezza si raggiunge in base ad una rielaborazione del materiale infantile interiorizzato in base a modelli parentali più maturi che si raggiungono a partire dal transfert.

Per Freud cioè non esiste un campionario 'fisso' di simboli (gli archetipi junghiani) valido per tutti gli uomini e per tutte le occasioni: è nel rapporto fra chi concretamente è in gioco che si determina una dialettica che permette il raggiungimento dell'autoconsapevolezza.

Questo per non parlare del diverso modo di vedere in generale la struttura della psiche umana da parte dei due, con tutte le conseguenze in campo ermeneutico che ne derivano.

Ma è sul terreno del rapporto tra fiaba e mito che si incontrano, a mio avviso, le maggiori difficoltà.

Se il sogno, infatti, in fondo è sempre un mio, un tuo sogno, un qualcosa che attiene alla dimensione storica del presente, così come al presente si ricollega la fiaba, nella misura in cui esiste ancora uno disposto oggi a narrarla ed uno disposto ad ascoltarla, il mito sembra ormai riferirsi ad una archeologia dei sentimenti e delle emozioni.

Ed è qui che si rischia di usare strumenti incongrui di interpretazione.

Innanzitutto vi è polemica sul rapporto fra interpretazione e varietà delle culture.

 

Da una parte le posizioni freudiane ortodosse (Roheim) che reclamano l'universalità dell'Edipo, ma che sono inficiate da "contaminazione fra categorie psicologiche e ipotesi biologiche" deterministiche (Scabini, 1975, pag. IX).

Dall'altra le posizioni culturaliste dei revisionasti neofreudiani (Fromm, Horney, etc.) che arrivano a negare l'universalità dell'Edipo ed ad ipostatizzare un relativismo culturale che castra ogni possibilità di definire dei 'sistemi interpretativi unitari di stabilizzazione del mondo" (Habermas 1978).

Ed infine l'approccio universalizzante della scuola di Francoforte (Marcuse e, più recentemente, Hahermas) che ripropone l'universalità delle categorie interpretative della psicoanalisi, senza più incongruenti e fuorvianti debiti con il darwinismo.

Ma a parte queste divergenze resta il fatto che, come diceva Fromm, da un linguaggio universale (anche se dimenticato) derivano vari 'dialetti", cioè varie versioni dei miti, delle fiabe, delle "storie" che gli uomini da sempre (si) raccontano. Ed allora è necessario trovare delle chiavi che siano in grado di cogliere sia l'aspetto universale dei fenomeni psichici sia le ragioni delle varietà regionali e locali, sia gli elementi del passato presenti nel nostro modo di vivere, sia le forme nuove sotto le quali si presentano tali elementi.

L'esigenza (già espressa nel capitolo precedente) di un approccio interdisciplinare, è fondamentale in proposito, e mi sembrano importanti sia le pagine di J.P. Vernant sulle "ragioni del mito" ed il suo tentativo di vedere questo fenomeno a partire da un uso critico delle varie discipline che si sono avvicinate all'analisi, sia d'altra parte i lavori degli etnologi e degli studiosi della fiaba e del folklore sui meccanismi di contaminazione reciproca delle varie forme del "raccontare orale".

 

Queste considerazioni, viste nell'ottica del rapporto fra mito e fiaba ed altri elementi del "raccontare orale", a mio avviso ci potrebbero portare a formulare la seguente ipotesi:

- la presenza in occidente (nella Grecia antica) di una 'filosofia' basata sul Mythos che era la filosofia dominante nella Grecia preistorica;

- la possibilità che tale "filosofia", pur ponendosi problemi universali, abbia avuto fin dall'inizio una certa tendenza alla scomposizione del Mythos in tanti "dialetti mitologici", corrispondenti a esigenze di modulazione su base culturale e specifica dei temi di fondo posti dal Mythos (l'opera di R. Graves, 1983) può essere vista come un tentativo di ricerca che va in questo senso);

- l'ipotesi, che è quella di Graves, che tale modulazione avvenisse come per condensazione di vari elementi del raccontare orale, diversi da luogo a luogo e perciò forieri di varianti locali, sempre originali e specifiche, ma sempre riferibili ad un senso "universale";

- la nascita della filosofia greca del logos, da una parte, e la cristallizzazione dei miti nella tragedia e nella letteratura greca e latina dall'altra, come testimonianza dell'emergere di una nuova forma di pensiero e di vita materiale (il pensiero logico della filosofia occidentale) e dell'inizio di un processo di eclissi del mito;

- l'emergere della fiaba come fenomeno apparentato probabilmente al mito, e sicuramente ad altre forme del raccontare orale, che in ultima istanza è da riconnettersi all'estendersi nel mondo materiale della civiltà del fare e del trasformare, e del pensiero razionale ad essa connesso; 

 

- l'ipotesi che un processo di regionalizzazione e di restrizione dell'udienza delle fiabe (dalla comunità nella sua intierezza ai soli bambini) dia luogo, come per i miti, a processi di condensazione e di spostamento che, come vedremo meglio nei due capitoli successivi, determinano le varianti locali ed, al limite, 'familiari' delle varie fiabe;

- ed infine d rischio attuale di allontanamento, di estraniazione dalla primitiva religione del Mythos, e dalla più recente "filiosofia" delle fiabe, e la psicanalisi come chiave che può riaprire le porte del sogno, della fiaba e del mito, nella misura in cui però non oppone individuo e società, ma cerca nella dimensione individuale l'elemento gruppale, e nella società la rappresentazione di quegli elementi individuali, comuni a tutti gli uomini, che permettono, nonostante la babele dei dialetti, una comprensione di tutti.

 Capitolo III

LE STORIE ED I FATTI: IL RAPPORTO FRA FIABA ED ALTRE FORME DEL "RACCONTARE ORALE" A LOCOROTONDO

a) Il termine 'storia": congruenze ed affinità

Finora abbiamo parlato di fiabe -. In qualche punto abbiamo sottolineato che nel dialetto locorotondese al termine italiano 'fiaba' corrisponde il termine "storia".

 

Sbaglieremmo però se considerassimo il contrario, e cioè che al termine "storia" corrisponde unicamente e compiutamente il termine ' fiaba '.

Infatti quando nelle due estati del 1982 e del 1983 ho raccolto il materiale su cui si basa la presente ricerca (materiale registrato su nastro e catalogato nel ¶ d) cap. 9) mi son trovato di fronte a degli informatori che alle mie richieste tendevano a rispondere in maniera alquanto tangenziale a quelle che "ingenuamente" erano le mie attese.

Cercherò di spiegarmi meglio. Le mie richieste erano formulate grosso modo così: "sto cercando di registrare, di testimoniare, di lasciar traccia delle storie di Locorotondo", e poi sempre precisavo "delle storie dei bambini" (ovviamente mi rivolgevo ai miei candidati-informatori usando il dialetto).

Dico ciò perché il secondo elemento che ho sempre ritrovato (e questa volta senza eccezioni) è la presenza - a fianco al sottoscritto, in qualità di ricevente-registratore - di una udienza di adulti attenti e compartecipi che in più di una occasione si è trasformata, per riprendere la similitudine fatta da Cirese, in una specie di "Jam session" in cui, proprio come nel jazz, motivi improvvisamente riemersi alla memoria venivano volta per volta lanciati da uno dei presenti, che in quel momento diventava il polo della "personalità-individualità", al resto degli astanti che si strutturava come provvisoria udienza ("popolarità-collegialità").

È chiaro che non tutti i presenti si sono avventurati sul piano del racconto, ma è chiaro anche che non solo per il raccontatore ma anche per l'udienza - e da ultimo anche per il sottoscritto che così diventava parte integrante dell'udienza stessa - tutto quell'insieme di testi orali erano congruenti ed affini al termine "storie".

Ebbene io penso che, se non si vuol fare l'ennesima operazione ideologica e destoricizzante (Richtcr, 1980) sulle fiabe, per prima cosa occorra rispettare queste congruenze, cercare di sentire (prima di tentare di capire razionalmente) la forza di queste affinità.

Quando la signora Pasqua Lorusso mi raccontava le sue storie era con noi una sua amica, una vicina che aveva avuto dei problemi psicologici che si erano manifestati per la prima volta a seguito di un episodio in cui all'improvviso le era apparsa una serpe morta sulla porta della propria casa - Ebbene le storie fascinose di draghi e di serpenti che la signora Pasqua ci andava raccontando e che per la sua amica avevano una immediata funzione abreatoria, in quel contesto non avevano e non dovevano avere la connotazione della storia intesa come fiaba, e cioè come "narrare mondi non veri, consapevoli della loro non verità,ma non per questo riducibili a menzogna o magia" (Cirese, 1980).

Ogni mio (timido) tentativo ad esempio di distinguere tra la storia di S. Giorgio e altri tipi di storie era repentinamente bloccato. Qualcosa di simile, in tono minore è avvenuto per i racconti delle signore Anna Angelini e Angela Caramia, che sono stati raccontati 'a turno' con una udienza più vasta di adulti presenti. Il signor Giuseppe Convertini, un anziano ma ancor vivacissimo contadino di contrada Sant'Elia, dopo avermi raccontato una o due storie mi ha invitato a ritornare di sera, perché gradiva raccontare il resto delle sue storie insieme al signor Cosimo Sarcinella. Quando, alla data convenuta, sono arrivato a casa del signor Giuseppe già erano presenti entrambi i narratori, ma insieme a loro vi era una vera e propria folla di parenti e di vicini.

L'andamento del racconto è stato, come ho detto prima, del tipo "Jam session", con gli altri a richiamare, di tanto in tanto, alla memoria un brano e i due "solisti" a raccontare con calore e sicurezza.

Il Signor Leonardo Cardone infine ha cominciato raccontando i fatti di "Gaetano di Sisto" e di "Tetè' e poi è passato a quelle che in italiano sono chiamate fiabe. Tutti gli altri (con l'eccezione che dicevo prima) hanno raccontato storie di varia natura intercalandole alle fiabe.

Cioè, come dice A.M. Cirese, "ciò che è fiaba, e non invece leggenda o storia d'altra natura, lo è indipendentemente dalle situazioni effettive del raccontare orale e in situazione".

 

Qualora invece ci si ponga in situazione, cioè in sintonia con il raccontatone e con la sua udienza, si vede subito come quella che per noi è 'fiaba' diventa in quel contesto un qualcosa che per essere compreso nella sua pienezza:

a) deve essere calato all'interno di un "raccontare orale" più vasto e variegato che definisce una "sequenza", come dice Aurora Milillo e che, come dice la stessa Milillo, deve 'venire a cadenza', cioè deve essere originato da una occasione Milillo, 1980 e 1983);

h) deve essere inteso sia dal raccontatore che dalla sua udienza come capace di giocare in termini ambigui sugli elementi di 'non verità' presenti nel narrare; ed infine

e) strutturarsi tendenzialmente come un gioco a più voci (la 'Jam session' di cui sopra) in cui, di volta in volta, un elemento va in primo piano, mentre gli altri si costituiscono come udienza, e così via.

b) "Le storie e i fard: primi elementi per una distinzione"

Chiarificato così che col termine " fìabe " e con il tipo di selezione del materiale raccolto che ne consegue si fa già una operazione culturale tendenzialmente incongrua rispetto alla pienezza del testo narrato, cercheremo ora di vedere quale tipo di distinzione viene fatta, quando viene fatta, all'interno della cultura locorotondese.

Partiamo, innanzitutto, dalle storie di Tetè o di "Gaetano di Sisto".

Ebbene penso sia sintomatico che, di primo acchito, anche questi testi vengono presentati come storie.

Ed effettivamente almeno un elemento che le apparenta con la "storia", cioè che le fa diventare "storie" ce l'hanno, ed è propriola cornice all'interno della quale sono raccontate.

Dato per assunto, sia per il raccontatore che per l'udienza, che quei testi narrati sono storie, fissato conseguentemente unospazio in cui tale testo possa essere raccontato ed ascoltato come 'storia', ecco che cominciano a diventarlo anche se, come vedremo meglio fra un poco, stando alle analisi strutturali di Propp e di Lüthi non hanno niente a che vedere con la fiaba.

"Tetè" e "Gaetano di Sisto" sono due personaggi "storici", realmente esistiti. (Il signor Leonardo Cardone ha visto Tetè e me ne ha fatto una descrizione.)

Nei racconti esistono degli altri personaggi con tanto di nome e... soprannome, esistono dei luoghi reali, c'è in ogni storia un fine, quasi sempre legato con la fame storica degli artigiani del paese e dei modi escogitati dai protagonisti per ingegnarsi a riempire lo stomaco.

Mancano cioè tutti gli altri presupposti che Lüthi, ad esempio, pone come condizioni affinché un racconto possa definirsi fiaba:

- manca la unidimensionalità: cioè la non distinzione fra mondo reale e mondo soprannaturale (per il semplice fatto che non vi è traccia di soprannaturale di "numinoso' nelle storie di Tetè o di G. di Sisto);

- mancano l'isolamento e le colleganze universali: cioè l'eroe senza nome e senza connotati che proprio per questo tende ad apparire all'ascoltatore come un contenitore che può prendere dentro di sé qualsiasi contenuto;

- mancano gli elementi del dono, del prodigio e del motivo monco: dono e prodigio penso siano chiari nel loro significato, per motivo monco Lüthi intende il fatto che nella fiaba qualsiasi motivo viene usato finché ce ne è bisogno poi viene abbandonato (Tetè e Gaetano di Sisto invece non ricevono doni da nessuno, non sono favoriti da prodigi ma dalla loro intelligenza, ed inseguono sempre lo stesso motivo: come riempire lo stomaco).

Mancano infine le funzioni della fiaba di cui parla Propp: cioè qualora, come suggeriscono Propp e, dopo di lui Barthes, Greminas etc,, si spezzetti il racconto in tanti piccoli segmenti corrispondenti alle unità minime che danno senso alla storia, si vede che tutte queste funzioni, tutti questi segmenti non hanno niente a che vedere con i 31 elementi costituenti (tutti, o in parte) la fiaba secondo Propp.

Allora qual è il senso di queste storie?

Non certo (o non ancora) quello che nei capitoli precedenti sull'onda delle analisi delle interpretazioni strutturaliste e psicoanalitiche abbiamo visto essere la fiaba e che, per ultimo, Greminas così riassume: nella fiaba, "come già nel mito secondo Levi-Strauss, si tenta la mediazione di contraddizioni fondamentali "che riguardano l'essenza dell'essere uomini" «Barthes, 1982, pag. 95).

E allora qual è il senso di queste storie che, in certi contesti o con un minimo di stimolazioni "manipolative" (domande, come dice A. Milillo, sulle fonti e sulle occasioni di racconto) gli stessi raccontatori finiscono col ridefinire come "fatti", cioè fatti che riguardano persone e avvenimenti realmente accaduti e sui quali, magari, comincia appena quell'opera di stilizzazioneverso l'astrazione del racconto di cui parla Lüthi?

A mio avviso è qui possibile cogliere in termini aurorali l'inizio di quello che può diventare un processo di rielaborazione(Richter, 1980) di materiale non fiabesco in materiale fiabesco. Per cui alcuni elementi che provengono da quello che a noi appare come un altro tipo di racconto possono entrare in una fiaba in base alle "variazioni della elaborazione popolare o comune" (Cirese, 1980).

Il medium sarebbe in questo caso proprio la "cornice" di cui si parlava all'inizio, e cioè la fissazione di uno spazio in cui tali racconti cominciano ad essere rielaborati e stilizzati (Liithi, 1979), cosicché si possano prestare ad operazioni di aggancio con trame più ampie e più ambigue.

e) Dal "fatto rammentato' alla "fiaba"

Fatti rammentati, pettegolezzi, storielle umoristiche, saghe familiari, leggende profane e religiose, miti, tutto può esseresublimato nella fiaba.

'La fiaba' afferma Lüthi, "coglie i motivi elaborati da queste semplici forme narrative, li sublima e li rende parti costituenti di un vasto racconto che può abbracciare numerosi episodi e che tuttavia non perde di vista la propria meta" (Lüthi, 1979, p. 105).

 

Abbiamo già visto come il fatto rammentato (storie di Tetè etc.) può già contenere una certa 'cornice', una certa tendenza alla stilizzazione (non si dimentichi che la povertà, la sofferenza e la fame sono parti costitutive degli elementi "di partenza" di molte fiabe!) che le mette già nell'orbita del discorso fiabesco.

Vediamo ora tutti gli altri elementi del 'raccontare orale' locorotondesi, da me raccolti che non possono esser definiti come fiabe.

Vi sono in primo luogo storie come quella del "capitano Spacca", di "Nicola lo scialacquatore", dei "Fioroni fasanesi", di 'Chi è il più scemo' etc. dove ancora è possibile riconoscere i contorni di fatti o personaggi che 'vengono' dai fatti raccontati, ma che, per una più accentuata tipizzazione, per una più precisa spinta verso l'astrazione, già sono apparentabili per certi versi alla"storiella umoristica" (I Fioroni fasanesi), per altri alla novella (Nicola lo scialacquatore), per altri ancora a quelle che A. Milillo chiama "storie della paura o storie notturne" (Il capitano Spacca).

Diverso è invece il caso di storie come "S. Pietro e la pestilenza", "La storia di S. Giorgio", "Il Vero maestro", 'S. Pietro ed il Maestro", in cui la presenza di personaggi della religione cristiana potrebbero far pensare ci si trovi di fronte alle "leggende religiose" di cui parla Lüthi.

Il fatto è che però manca in queste storie qualsiasi tendenza ad inquadrare "il singolo avvenimento in un quadro dogmatico", così come è evidente che chi le diffonde e le 'coltiva' non sia nel nostro caso la Chiesa.

D'altro canto la presenza massiccia di simili motivi nella raccolta "Fiabe pugliesi" di Giovanni Battista Bronzini e soprattutto le riflessioni fatte dal Bronzini stesso su questo fenomeno ci portano a dire con lui che la presenza di "eroi del paradigma narrativo evangelico", così come quella di "contadini, pastori, pescatori" a fianco a quelle dei re e delle regine sia dovuto "alla distanza ed alla separatezza dalla sovranità e dalla capitale del Regno, in cui sono state tenute le popolazioni delle province continentali", nonché alla funzione dei "pellegrinaggi" come centri di irraggiamento e di diffusione di quell"'anedottica religiosa di carattere scherzoso" che mi pare sia il titolo più appropriato per storie di questo genere.

Un terzo blocco è possibile isolare all'interno di questo narrare orale che, va ancora ribadito, non appare come isolato nel momento (nell'occasione direbbe A. Milillo) che lo ha originato: "La quaglia, il pettirosso e......", "Il vino", "La volpe e la quaglia", "Il gatto e il topo", sono i titoli di queste storielle che, per l'assenza di motivi morali, o moraleggianti, per l'assenza di verosimiglianza, sembrano più apparentarsi con la favola (favola = fatto immaginario, per lo più inverosimile, spesso - ma non sempre - a scopo didattico), che non l'apologo (apologo = racconto teso ad adombrare una verità morale e che ha come protagonisti cose o animali) (Panozzo, 1961).

Infine vi è un quarto gruppo, oltre alle fiabe (e qualche brindisi e indovinello); si tratta di un insieme di storie, come 'La forza della scuola', "Don Angelo", "Analisi delle urine", "Marito e moglie dall'avvocato", "Fratelli di religione" etc. che mirano a mettere alla berlina gli intellettuali laici e religiosi presenti in paese e le loro presunte virtù (saggezza, altruismo etc.).

Quest'ultimo filone mi pare si possa apparentare con i racconti sulle "parità morali" studiate da Guastella, (1969) e che il Bronzini definisce come racconti che "rivendicano una uguaglianza umana contro la disuguaglianza economica e sociale stabilita dal destino della nascita, cui si contrappone talvolta la mobile, benefica o malefica, fortuna".

Cosa dire perciò dell'ipotesi di Lüthi sulla funzione filtrante e sublimatoria della fiaba rispetto a tutti questi altri generi del narrare orale? Penso sia sbagliato fare una classifica dei livelli di astrazione e di stilizzazione presente nei vari generi: ciò implicherebbe fissare una gerarchia fra di essi e definire un filtraggio "alchemico" che nella realtà semplicemente non esiste ed in base al quale nell"'ampolla-fíaba" finirebbe il precipitato del processo di sublimazione di ogni racconto, e in una specie di immondezzaio tutto il resto.

Mi sembra più corretto vedere, come suggerisce Cirese, tutta la narrazione orale come un mobilissimo corpus in continua tensione, in cui i vari generi si alimentano l'uno dall'altro in base ai continui apporti che vengono dalla cultura in cui il racconto si occasiona, e dalle caratteristiche personali del raccontatone.

E se una scelta va fatta all'interno del materiale raccolto ciò deve essere fatto a partire da esigenze chiare per chi compie una operazione di questo genere.

L'enfasi che la cultura germanica e nordica ha messo nella raccolta e analisi della fiaba, come giustamente affermano Richter e Buttitta, è strettamente legata al nascere dell'ideologia nazionalistica di questi popoli.

Richter avanza l'ipotesi che in Italia possa esserci un diverso destino per le fiabe grazie al maggiore decentramento delle nostre culture popolari ed una tradizione orale ancora vivente.

L'ipotesi che ha guidato la presente ricerca e la selezione del materiale raccolto non è una istanza municipalistica (che riprodurrebbe in termini lillipuziani il nazionalismo di cui sopra), ma l'idea che a partire da un confronto fra fiabe di paese e di campagna (nonché fra fiabe di qui e fiabe raccolte in un contesto in cui l'autore vive e lavora) sia possibile definire il senso che ogni variante assume nei diversi contesti sociali (Buttista, 1979), soprattutto dal punto di vista dell'igiene mentale del bambino e dell'adulto.

Capitolo stralciato da 
Leonardo Angelini,
Le fiabe e la varietà delle culture 
cleup editore, Padova 1989

ANGELO CAPOZZI

PREMESSA
(Fiabe raccolte a Borgo Croci)

La serie di fiabe, favole, racconti religiosi, racconti umoristici ecc., che vi presentiamo, è stata quasi interamente raccolta tra i terrazzani (di Borgo Croci).

Essi hanno, da sempre, ricevuto da bisnonni, nonni, genitori e dal parentado, alcuni "blocchi informativi" funzionali alla risoluzione di problemi esistenziali e alla formazione educativa dei soggetti.

Per quel che riguarda l'aspetto esistenziale ritroviamo soprattutto il formulario delle credenze e i riti magici; l'intervento educativo è costituito dalle fiabe, dalle favole, dai racconti religiosi, moralistici, ecc.

Durante il lavoro di raccolta ho notato che i terrazzani non riuscivano a distinguere nettamente i confini tra realtà ed invenzione; anzi, per essere più precisi, erano più propensi a credere vere le fiabe e le altre forme di narrativa popolare, piuttosto che frutto della fantasia. Forse una causa di quello che si è detto la ritroviamo nelle parole di Italo Calvino: «[...]le fiabe sono vere. Sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna, soprattutto per la parte di vita che appunto è il farsi d'un destino [...]».

Quando ho indicato i racconti religiosi col termine «favolette», i terrazzani mi hanno rimproverato ricordandomi che sono «Cose di Dio»; fatti realmente accaduti quando Gesù Cristo «camminava sulla terra» anche se non vengono menzionati, per niente nel Vangelo).

L'accettazione del patrimonio tradizionale (a livello magico e religioso, a livello di narrativa popolare, ecc.) avviene, purtroppo, in maniera piuttosto acritica, cioè senza distinguere le componenti positive da quelle negative, frenanti lo sviluppo culturale e sociale.
Mentre la tradizione crea canali vitali per lo sviluppo della vita sociale, presenta (nel contempo) anche una serie di ostacoli alla crescita armonica della personalità dell'individuo.
Perché raccogliere fiabe e racconti popolari? Perché sono di un'importanza fondamentale negli ambiti educativi scolastici, domestici, del tempo libero, ecc.; soprattutto la fiaba.

  • Il lettore che vuole una risposta soddisfacente, in relazione al carattere didattico-pedagogico della fiaba, potrebbe leggere «il mondo incantato di Bruno Bettlheim (pubblicato dalla Ed. Feltrinelli, Milano 1977).
    Con letture psicoanalitiche e soprattutt
    o con la sua lunga esperienza come psichiatra, come psicologo e terapista, ha analizzato una grossa quantità di fiabe, ricavandone una serie di indicazioni pedagogiche e psicologiche.
    Secondo Bettelheim (da me pienamente condiviso) la fiaba:
    - aiuta il bambino a conoscersi e a rapportarsi agli altri nel migliore dei modi;
    - stimola l'immaginazione, sviluppa l'intelletto, chiarisce le emozioni, armonizza ansie e disperazioni, fa riconoscere le proprie difficoltà, e suggerisce soluzioni ai problemi che originano turbamenti;
    - porta al predominio della ragione sul magma delle emozioni;
    - dà ottimismo, anche grazie all'identificazione con gli eroi, senza nascondere le innumerevoli difficoltà che si incontrano nella vita; il piccolo, il debole possono affermarsi anche contro giganti (che spesso simboleggia il mondo adulto);
    - parla attraverso il linguaggio dei simboli, a livello 
    conscio e inconscio, in una dinamica che vede l'inconscio come fonte di materiali grezzi con i quali l'Io erige l'edificio della personalità;
    - «descrive in forma immaginaria e simbolica le tappe fondamentali del processo di sviluppo, teso all'acquisizione di un'esistenza indipendente»;
    - permette l'equilibrata integrazione tra l'ES (la nostra vita istintiva), l'Io (la componente razionale della personalità, che si conquista progressivamente nella crescita) e il Super-Io (la componente genitoriale, direttiva, autoritaria, idealistica, ecc.);
    - aiuta nel superamento della fase edipica;
    - parla al bambino sintonizzandosi col suo pensiero animistico (come descritto da Piaget), contrariamente a quello che fanno gli adulti con i loro interventi estremamente razionali;
    - ecc.

I terrazzani mi hanno riferito che le fiabe venivano ascoltate sia dai bambini che dagli adulti. Questo fatto trova conferma in una delle riflessioni di Bettlheim: la fiaba parla a livelli diversi a bambini ed adulti.
A livello simbolico nella narrativa popolare i numeri dispari 3, 5, 13, ecc. sono molto importanti (come lo sono d'altra parte nel mondo magico).
Il numero 3 in genere ha un'importanza simbolica particolare. È il numero che si riferisce alla Trinità, ma è anche il numero degli elementi della vita: la terra, l'aria, l'acqua (presenti nella fiaba «Le tre vesti» appunto simboleggiati dai tre vestiti), dei diversi aspetti della personalità di ciascun uomo (Es, Io e Super-Io), rilevabili attraverso una lettura psicanalitica della fiaba.

Italo Calvino, al riguardo, presentando la sua raccolta afferma: «Se di ciascuna fiaba io seguo una versione raccolta in una data località o regione, ciò non vuol assolutamente significare che quella fiaba è di quel luogo. Le fiabe, si sa, sono uguali dappertutto. Dire "di dove" una fiaba sia non ha molto senso [...]».

Per fare un esempio che c'interessa da vicino, possiamo considerare i nostri racconti religiosi di Gesù e San Pietro, alcuni dei quali li ritroviamo nelle «Fiabe italiane» di Calvino come raccolte in Sicilia e in Friuli.

A conclusione di questa sintetica premessa vorrei invitare gli insegnanti, gli operatori del tempo libero, i genitori, i nonni, ecc., a riscoprire il valore didattico-pedagogico della fiaba.
Nella scuola, in modo particolare, bisogna farle ascoltare (ripetendo più volte la stessa fiaba e stando accorti a soddisfare particolari richieste dei bambini), studiarle nella struttura e nelle diverse funzioni, per arrivare con molta naturalezza alla creazione delle stesse da parte dei bambini. Il tutto possibilmente inserito in un discorso interdisciplinare (fiaba - musica - fiaba - drammatizzazione - fiaba - disegno ecc.), in un processo didattico che vede la fiaba arricchita dagli altri linguaggi, o che utilizzi quest'ultimi come verifica della reale comprensione dei diversi "ingredienti" del racconto (uso del disegno e della drammatizzazione come verifica della comprensione).

                                        ANGELO CAPOZZI

Lino Angiuli 


è nato a Valenzano nel 1946. Vive e lavora a Monopoli, dove dirige per la Regione Puglia un Centro di Servizi culturali. Prima di Favolare, ha già pubblicato cinque libri di poesia, uno dei quali in dialetto, ricevendo riconoscimenti e traduzioni all'estero. Per l'editore Schena dirige, con Gianni Custodero, la collana di poesia Aggetti; con Giovanni Dotoli e Raffaele Nigro, la rivista di letterature e materiali «in oltre»; con Raffaele Nigro, la sezione Meridioni della Biblioteca della ricerca. Collabora, tra l'altro, ai servizi culturali della RAI e alla pagina culturale del quotidiano «La Gazzetta del Mezzogiorno».

MARIO SCELSA

INTRODUZIONE
(Fiabe raccolte a Borgo Croci)

Nella profonda Germania, lungo il fiume Weser, tra boschi e castelli, in un'atmosfera incantata, è sorta una strada, «Strada delle Fiabe». Ideata nel 1973 dal prefetto della contea di Kessel, ha l'intento di offrire al visitatore un paesaggio di sogno, in cui è possibile ripercorrere i «luoghi» in cui «vissero» la Bella addormentata, Cenerentola, Cappuccetto Rosso, Hansel e Gretel... e tutte le più famose fiabe raccolte con tanta tenacia dai fratelli Grimm.

Ve la immaginate voi una «Strada delle Fiabe», a Foggia, tra le nere stoppie d'agosto?
Per fortuna le fiabe non nascono solo nei boschi, ma certo non ci rallegra costatare che tra le raccolte di fiabe e di racconti popolari su scala nazionale (Calvino) o regionale (G.B. Bronzini-G. Cassieri, Fiabe pugliesi, Mondadori, Milano, 1983) la voce del Tavoliere è quasi completamente assente. Quale sarà la ragione?
La risposta non è facile; ciò che si può dire è che la povertà di riferimenti storici (monumentali, architettonici, artistici, urbanistici...) non ha favorito la crescita di identità culturale, divenuta ancora più precaria se si pensa all'eterogeneità del tessuto sociale formato in buona parte da immigrati subappenninici e garganici.
Probabilmente l'identità va ricercata su altre basi, ricucendo pazientemente micro-storie, come hanno insegnato i maestri della scuola degli «Annales», affidandosi anche, in mancanza d'altro, alle labili tracce linguistico-tematiche della tradizione orale.

È in questa direzione che vede la luce questo libro. La presente raccolta di fiabe e racconti è il frutto di un lavoro a setaccio, ancora parziale e provvisorio, realizzato a Borgo Croci, utilizzando narratori di un gruppo popolare attualmente in estinzione o in progressiva e irreversibile metamorfosi socio-culturale: i terrazzani. Ciò ovviamente non significa "originalità" di contenuti orali (è ancora presto per dirlo), ma solo, e questo può essere originale, sicuro riferimento territoriale e peculiare versione in vernacolo.

La raccolta è una traduzione dalla viva voce di fiabe, racconti, aneddoti, favole..., il più possibile fedeli alla narrazione parlata.

Alcuni racconti seguono schemi espositivi ricchi ed articolati ed hanno uno sviluppo fluido, avvincente; altri evidenziano vuoti di memoria, improvvisazioni, incongruenze nella trama, finali bruschi e posticci. Tutto ciò è un limite, ma anche una ricchezza perché, come ricorda il Nerucci «la novella non è bella se sopra non ci si rappella».

Siamo stati in dubbio se pubblicare o meno anche le fiabe che presentavano lacune più vistose, ma poi abbiamo optato per la prima ipotesi, convinti che è meglio conservare il prezioso materiale orale piuttosto che perderlo definitivamente (è questo il caso, per esempio, de «il principe cieco» e «la storia di Sant'Angelo Raffaele», in cui difettano alcuni passaggi, che rendono la trama scarsamente finalizzata).
La contaminazione, poi, sia dei temi che dei personaggi è un fenomeno assai diffuso nei racconti popolari e nel caso specifico del Tavoliere, terra aperta al mare e alla transumanza, fin da tempi remotissimi, il fenomeno è ancora più vistoso.
In alcune fiabe inoltre, il motivo o la trama sono sicuramente originali e interessanti, ma il corredo linguistico è scialbo e approssimativo; anche in questi casi, per dovere "scientifico", ci siamo limitati a "tradurre" senza ricostruire. Resta purtroppo perso, nello scritto, il colore della parola o dell'espressione dialettale intraducibili, il tono della voce, il gesto molto eloquente e sostitutivo di un'intera frase, la tensione emotiva del narratore e dell'ascoltatore.

Sicuramente la stessa fiaba sarà conosciuta con altre varianti; noi, in questa fase di lavoro, ci siamo astenuti volutamente dal fare uno studio comparativo, cosa che potrà essere oggetto di uno studio successivo. Anzi ci auguriamo che la presente raccolta possa essere di stimolo a quanti sono a conoscenza di altri racconti o fiabe (e ce ne sono sicuramente tantissimi...) o di una "loro" versione differente da quella pubblicata. Costoro, se vorranno, saranno ben accolti da noi e potranno registrare il loro racconto su nastro magnetico, come si è fatto per i racconti qui pubblicati.

La classificazione delle fiabe e racconti non segue un criterio rigorosamente scientifico, del tipo, per intenderci, elaborato da A. Arne e S. Thompson in «The Thypes of the Folktale», «FFC 184», ma raggruppamenti di facile riconoscimento e precisamente: fiabe magiche, racconti-novelle di fortuna e bravura individuale, racconti con intento moralistico, racconti religiosi, favole e animali.
Per molti racconti o fiabe è da notare il marcato processo di "cristanizzazione", attraverso cui fate e streghe diventano Madonne-Santi e diavoli e la persistenza, insieme a ciò di motivi sicuramente anticristiani come l'incesto (nella fiaba «Le tre vesti») e il cannibalismo (nel «Paese dove non si moriva mai»). È anzi proprio la presenza di simili contraddizioni, che stimola la ricerca e il confronto sull'asse sincronico e diacronico con altre fiabe e racconti.  Si potranno così, eventualmente, evidenziare nuclei narrativi o tematici che, oltre ad offrire un contributo fantastico-popolare originale, diano anche luce allo spaccato storico-sociale del nostro popolo.

La "fretta" di pubblicare questo libro viene anche dalla consapevolezza di veder svanire giorno dopo giorno i rari testimoni e con essi la preziosa memoria che ci appartiene.
Dico «ci» e intendo riferirmi in particolare ai Foggiani e a quanti, radicati o sradicati, si sentono legati alla citta. La traduzione in lingua, comunque, vuole recuperare anche un pubblico più vasto che, per collocazione geografica o per scarsa dimestichezza col dialetto sarebbe rimasto altrimenti tagliato fuori.

mario scelsa

GIOVANNI MINARDI

Giovanni Minardi, esperto IRRSAE , collaboratore della Cattedra di Didattica delle Lingue Moderne di Bari e formatore di docenti di lingue straniere, è uno studioso di problemi linguistici nonché appassionato di tradizioni popolari. Egli studia infatti queste ultime attraverso la lingua, in modo particolare i dialetti, e le mette a confronto con le altre culture europee. Un'antologia interculturale "Dalla Puglia all'Europa" delle Edizioni Levante di Bari, ne costituisce un percorso esemplificativo.
Per la Scuola Media, inoltre, ha dedicato la sua attenzione, con il testo Puglia in favola - CPE (1999) , insieme ad altri due studiosi: il poeta Lino Angiuli  e l'attore Lino Di Turi, ad una raccolta di favole della tradizione orale pugliese, che, sceneggiate da Lino Di Turi, sono state trascritte sotto forma di racconti e dialoghi.
Altri suoi studi vertono sulle problematiche glottodidattiche della lingua inglese. A tale proposito spicca il testo, premiato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, "La competenza culturale e le lingue In Europa "(1994) oltre a "L'insegnamento elementare di una lingua straniera"(1992), della C.P.E. di Modena.
Nel campo scolastico è noto, sempre con edizioni C.P.E., per "English, vocabolarietto culturale" (1998) che descrive in modo alfabetico una cultura straniera, "Say a Rhyme, Sing a Song, Teli a Story" (1999), tre progetti a livello tematico sulle filastrocche, canzoni e storie per ragazzi, ed un testo di letture inglesi per la scuola superiore "Augustus Hare and the Apulian Tour Past andPresent" (2000), che spinge a confronti culturali tra aspetti economici, storici e sociali della Puglia dell'800 e la realtà attuale.
Giovanni Minardi scrive anche su molte riviste di didattica e glottodidattica.

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