ORCHI

TREDICINO MALANDRINO 

C'era una volta una famiglia contadina poverissima con dodici figli. Come se non bastasse, ne arrivò un altro. I fratelli non lo volevano; erano già troppi. Il padre era preoccupato: come avrebbe sfamato una figliolanza così numerosa? Ma gli apparve una fata e disse:

«Abbi fede, questo figlio sarà la tua fortuna. Lo chiamerai Tredicino, proprio perché, il numero tredici è fortunato».

«Ma tu chi sei?»

«Io sono la Fede».

Così Tredicino nacque fatato. Ma i suoi fratelli non lo sapevano e continuavano a non amarlo e a non volerlo. Quando fu cresciuto un poco lo portarono con loro a lavorare nel bosco, con l'intenzione cattiva di disfarsene. Infatti lo abbandonarono legato a un albero e andarono via.

Ma venne la Fede e lo liberò, trasformando il bosco in legna da ardere, ben tagliata e accatastata. Tredicino tornò a casa e disse alla mamma: «Ho comprato la legna a chilo e mezzo chilo e tu vendila a quintali e mezzi quintali».

«Quanta abbondanza, quanta abbondanza!» esclamò la madre contenta. I fratelli, tornando, restarono esterrefatti nel trovare Tredicino e tutta quella provvista di legna che per loro era una vera ricchezza. Più ingelositi che mai, il giorno dopo portarono nuovamente con loro il fratellino fatato, ma lo buttarono in un pozzo per farlo morire. Ma venne la Fede che tramutò l'acqua in olio e salvò Tredicino e questi, tornato a casa, disse alla madre:

«Ho comprato l'olio a chilo e mezzo chilo e tu vendilo a quintali e mezzi quintali».

«Quanta abbondanza, quanta abbondanza!» ripetè la madre ancora più contenta. Ma i fratelli ne erano indispettiti. Decisero allora di portare con loro Tredicino a lavorare nei campi del Nannorchio che aveva bisogno di una squadra di mietitori. Era un lavoro molto pericoloso, data la natura selvatica degli orchi mangiatori di carne umana.

I Nannorchi avevano anche loro tredici figli che lavoravano alla mietitura insieme ai fratelli di Tredicino. La sera le due squadre dormivano nei lamioni della masseria, sopra la paglia. I figli del Nannorchio avevano in testa un berretto rosso. I fratelli di Tredicino e lui pure, un berretto verde. L'ultimo giorno della mietitura, Tredicino, mentre tutti dormivano, andò a spiare i Nannorchi e li sentì dire:

«Ormai il lavoro l'abbiamo finito. A mezzanotte scendiamo nel lamione e ammazziamo i tredici mietitori. Così non li paghiamo e domani li mangiamo». «Sì, ma come faremo a distinguerli dai nostri figli che dormono insieme a loro?» disse la Nannorchia.

«Semplice - rispose il marito - li distingueremo dal berretto verde».

Lesto come il vento, Tredicino tornò nel lamione e scambiò i berretti rossi con quelli verdi. Così quando a mezzanotte i Nannorchi, alla pallida luce della luna, scesero nel lamione e vennero ad ucciderli, senza saperlo uccisero i loro figli.

Immediatamente Tredicino svegliò i fratelli, li avvertì dell'accaduto e disse:

«Scappiamo».

Vista quella strage, tutti se la dettero a gambe levate. Solo Tredicino, più piccolo di tutti, rimase indietro, tanto che alle prime luci dell'alba era ancora sulla Murgia in vista della masseria del Nannorchio. Allora ebbe un'idea. Si fermò, si voltò indietro e, facendosi imbuto con le mani, gridò: «Zio Nannorchio, zio Nannorchio, te ne ho fatta una!»

Il Nannorchio aveva appena scoperto la strage dei suoi figli fatta da lui stesso e, furibondo, gli rispose:

«Tredicino malandrino,
mi hai mandato alla rovina,
tredici figli mi hai ammazzato.
Ma prima o poi ti acchiapperò».

«Cuzzù e cuzzù,
non mi acchiappi più!»

Gli rispose Tredicino facendogli marameo col pollice sul naso e scappando via di corsa.

Intanto il re aveva decretato che chi fosse stato capace di portargli l'anello che la Nannorchia aveva al dito, avrebbe avuto lauta ricompensa. I fratelli approfittarono per segnalare al re l'audacia di Tredicino nel beffare il Nannorchio. Il re allora gli ordinò di compiere l'impresa. Ma il ragazzo aveva paura e si mise a piangere. Gli apparve la Fede che gli chiese:

«Perché piangi?»

«Perché il re mi ha ordinato di portargli l'anello della Nannorchia, e io non so come fare».

«Tu diventerai una pulce e andrai a pungere la Nannorchia sul braccio e sulla mano, finché quella, infastidita, non si toglierà l'anello e lo poserà sul comodino. Allora tu lo prenderai e fuggirai».

Tredicino fece così e, diventato pulce, tanti piccoli morsi tirò alla mano e all'anulare della Nannorchia che quella, col dito gonfio, fu costretta a togliersi l'anello e a posarlo sul comodino. Veloce come il vento Tredicino l'afferrò e fuggì. Ma giunto sulla Murgia si voltò e, con le mani a imbuto, di nuovo gridò:

«Zio Nannorchio, zio Nannorchio te ne ho fatta una, e te ne ho fatta due». Uscì il Nannorchio come un indiavolato e gli urlò:

«Tredicino malandrino,
mi hai mandato alla rovina,
tredici figli mi hai ammazzato,
l'anello d'oro mi hai levato.
Ma prima o poi ti acchiapperò».

«Cuzzù e cuzzù,
non mi acchiappi più!»

E facendo ancora una volta marameo, Tredicino fuggì lontano, portò l'anello al re e ne ebbe lauta ricompensa.

«Quanta abbondanza, quanta abbondanza» esclamò sua madre.

Ma i fratelli erano morsi dall'invidia. Il re chiese ancora a Tredicino di portargli la chioccia coi pulcini d'oro che possedevano i Nannorchi. Tredicino tremava al pensiero della nuova impresa, i fratelli lo costringevano a tentare. Gli apparve la Fede e gli disse:

«Diventerai uccello e volerai fino al pollaio. Porterai con te del granello e chiamerai al becchime i pulcini e la chioccia. Essi accorreranno tutti insieme, ne mangeranno e tu delicatamente li potrai prendere e mettere in un sacco. Così, mentre il Nannorchio dorme, tu potrai portarli via».

Così fece Tredicino. Penetrato nel cortile, dove le galline razzolavano, sparse in terra il granello e fece:

«Purr-purr, purr-purr, purr-purr, purr-purr».

Accorsero i pulcini golosi di quel cibo e con loro la chioccia. Delicatamente ma rapidamente Tredicino li prese, li mise nel sacco e scappò via. Dall'alto della Murgia gridò:

«Zio Nannorchio, zio Nannorchio te ne ho fatta una, te ne ho fatte due, te ne ho fatte tre».

E il Nannorchio adirato gli gridò dietro:

«Tredicino malandrino,
mi hai mandato alla rovina, 
tredici figli mi hai ammazzato,
l'anello d'oro mi hai levato,
la chioccia coi pulcini d'oro mi hai rubato.
Ma prima o poi ti acchiapperò».

Cuzzù e cuzzù,
non mi acchiappi più!»

E scappò facendo marameo.

Anche stavolta il re, ammirato dalla furbizia di Tredicino, lo ricompensò con un gran premio e gli chiese ancora la catena d'oro che la Nannorchia portava appesa al collo.

Ancora una volta la Fede gli apparve e gli disse di diventare una mosca e di andare a ronzare sul collo della Nannorchia fino a quando quella, infastidita, non si fosse levata la collana. Tredicino così fece.

Ma la Nannorchia, invece di togliersi la collana, provò più e più volte ad acchiappare il noioso insetto. Fino a quando ci riuscì e, presolo fra le dita, gli disse:

«Sei bestia o sei anima di cristiano? Perché io ora ti schiaccerò». «No, no io sono Tredicino».

«Ah, finalmente nelle nostre mani!»

Chiamò subito il marito e insieme gli dissero sghignazzando:

«Ora ti faremo ingrassare perché sei troppo piccolo, e poi ti mangeremo coi nostri parenti Orchi».

Lo rinchiusero in una botticella e lì lo tenevano all'ingrasso senza lavorare e facendolo mangiare molto. Ogni tanto la Nannorchia gli chiedeva di mostrarle un dito per vedere a che punto era.

Ma Tredicino in quella botticella aveva trovato la codina di un topo e la mostrava alla Nannorchia che, avendo un occhio solo, ci vedeva poco e scambiava quella codina per un dito troppo magro di Tredicino. Così non lo ammazzava, in attesa che ingrassasse un po'. Ma un brutto giorno Tredicino perdette la coda di topo e dovette mostrarle il dito.

«E' pronto per essere arrostito» sentenziò la Nannorchia.

E il marito andò ad invitare certi loro parenti Orchi che abitavano in un paese vicino, lasciando alla moglie l'incombenza di accendere il fuoco. Ma era finita la legna e la Nannorchia si mise a spaccarla con l'accetta. Allora Tredicino ebbe un'idea:

«Se mi liberi almeno un braccio - disse - te la spacco io la legna. Tanto lo so che devo morire. Ormai sono rassegnato».

La Nannorchia gli credette e gli liberò il braccio. Tredicino con quello prese l'accetta e cominciò a dar colpi sulla legna. Dopo un po' fece: «Con un braccio solo mi stanco e posso lavorare poco. Liberami anche l'altro, tanto la mia sorte è segnata».

La Nannorchia glielo liberò. Dopo un po' lui riprese:

«Ho le ginocchia dolenti. Se mi fai uscire ti taglio tutta la legna in quattro e quattr'otto e poi ritorno qua dentro».

La stupida Nannorchia gli credette e lo fece uscire. Tredicino si mise di buona lena a spaccare legna. Ma con la coda dell'occhio osservava i movimenti della Nannorchia per cui, non appena quella si voltò di spalle, con un rapido fendente dell'accetta, le mozzò il capo di netto.

Poi pensò a nascondere il tutto per il ritorno del Nannorchio. Il corpo lo buttò in un pozzo e la testa la mise nel letto. Sotto le coperte sistemò un barilotto pieno d'acqua in modo che sembrasse il corpo tozzo e panciuto della Nannorchia. Poi fuggì.

Tornò il Nannorchio e si meravigliò di non trovare ancora il fuoco acceso. Cominciò a imprecare contro sua moglie poltrona e scansafatiche, specie quando la vide nel letto ove sembrava tranquillamente addormentata. «Alzati vieni a preparare, che fra poco arrivano gli ospiti. Ah, nemmeno mi rispondi? Ti faccio vedere io!»

Prese un grosso bastone e cominciò a suonargliele di santa ragione. Picchiava tanto forte che dopo un po' il barilotto cominciò a fessurarsi e a far uscire l'acqua. Ancora più irato, lo stupido bestione gridò:

«Ah, adesso fai anche la pipì a letto, brutta sporcacciona, alla tua età. Vuoi pisciare? E allora piscia, piscia veleno, piscia veleno amaro!»

E giù botte da orbi. Tante gliene dette che il barilotto andò in pezzi e la testa della Nannorchia rotolò sul pavimento. Solo allora il Nannorchio si rese conto che quella era opera di Tredicino.

Anche perché dall'alto della Murgia si sentì di nuovo la sua voce che diceva:

«Zio Nannorchio, zio Nannorchio te ne ho fatta una, te ne ho fatte due, te ne ho fatte tre, te ne ho fatte quattro».

«Tredicino malandrino,
mi hai mandato alla rovina,
tredici figli mi hai ammazzato,
l'anello d'oro mi hai levato,
la chioccia coi pulcini d'oro mi hai rubato,
la testa di mia moglie hai tagliato.
Ma prima o poi ti acchiapperò».

Cuzzù e cuzzù,
non mi acchiappi più!»

E scappò facendo marameo.

Intanto, con tutto il denaro avuto in premio dal re per le sue gesta contro il Nannorchio, Tredicino si comprò mulo e traino e diventò trainiere. Schioccava la sua frusta con la punta rossa e cantava allegramente mentre trasportava i suoi carichi. Ma pensava sempre a come fare per vincere definitivamente il Nannorchio.

Così una notte, caricata sul traino una grande cassa di chiodi, passò vicino alla casa di Nannorchio cantando e schioccando la frusta, com'era sua abitudine.

Il Nannorchio lo sentì e lo chiamò:

«Trainiere, dove vai con questo carico?»

«Vado al paese di Tredicino» rispose contraffacendo la voce e calandosi il berretto sulla fronte, per non farsi riconoscere.

«Se mi porti con te, ti do tanti soldi».

«E come faccio. Non ho posto. Il traino è occupato da questa grande cassa di chiodi. Se vuoi posso chiuderti dentro».

«Sì, sì accetto, purché mi porti nel paese di Tredicino».

«Ma ti pungerai».

«Non importa. Qualunque sacrificio, pur di arrivare ad acchiappare quel malandrino».

Tredicino rideva sotto i baffi e si calava sempre più la coppola sugli occhi per non farsi vedere bene dall'unico occhio dell'orco, mentre questi saliva sul carro.

Così lo chiuse dentro la cassa dei chiodi e riprese il suo cammino, scegliendo la strada più lunga e più sconnessa. Ad ogni sobbalzo il Nannorchio faceva:

«Ahi, ahi!»

e Tredicino:

«Ti fa male? Se ti fai male dillo che ti faccio scendere».

«No, no, non importa tu pensa solo a portarmi al paese di Tredicino». «Ma la strada è lunga».

«Fosse pure in capo al mondo, ci andrei lo stesso».

Cammina cammina, cammina cammina, il Nannorchio, punto da tutte le parti, perse tanto sangue che morì dissanguato. Allora Tredicino andò dritto dritto alle guardie del re e lo consegnò, ormai innocuo.

Il re decretò che tutte le ricchezze del Nannorchio passassero a Tredicino che aveva liberato la contrada da un simile mostro, e Tredicino, ormai ricco, perdonò i fratelli invidiosi, si riconciliò con loro e tutti vissero ricchi e contenti. 

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