GIOVANNI BATTISTA BRONZINI

INTRODUZIONE
a Fiabe Pugliesi

Regionalità storica delle fiabe pugliesi

La fisionomia regionale delle fiabe pugliesi, in assenza di una tradizione narrativa propria di questa regione, è una incognita che si può risolvere in positivo o in negativo, quantomeno intravedere, soltanto dopo aver effettuato una serie di comparazioni e prospezioni del materiale (e non solo di quello, quantitativamente ridotto, compreso nella presente silloge).
Per la documentazione disponiamo di una buona raccolta di Fiabe e canzoni popolari del contado di Maglie in Terra d'Otranto raccolte e annotate da P. Pellizzari (1881), di una più letteraria ma non meno interessante raccoltina di G. Gigli (1893), che riporta in versione italiana fiabe anch'esse di Terra d'Otranto, e di un corpus regionale di rilevante ampiezza e importanza, anche se non filologicamente curato e sprovvisto di dati ed elementi conoscitivi che si richiedono per la contestualizzazione dei testi.  Mi riferisco ai tre volumi di Fiabe e novelle del popolo pugliese di S. La Sorsa (1927, 1928, 1941), da cui sono tratti la maggior parte dei testi qui tradotti.  Inedito ma consultabile è il ricco materiale di testi di racconti registrati in Puglia tra il 1968 e il 1972 e classificati nelle Tradizioni orali non cantate della Discoteca di Stato (DiS 1975).  Sorvolando su alcuni contributi minori (che cito nella nota bibliografica), va infine segnalata la cospicua raccolta di Racconti greci inediti di Sternatìa pubblicati di recente da P.. Stomeo (1980), che ha un notevole interesse linguistico e culturale, in quanto rappresenta in modo consistente, benché limitato a un solo paese, la situazione della narrativa popolare in grico dell'area della Grecìa salentina, della quale finora si conoscevano soltanto cinque racconti in grico (tre di Martano, uno di Castrignano e uno di Sternatìa), raccolti e pubblicati da Morosi (1870), e un 'cunto' calimerese raccolto da B. De Santis e pubblicato da G. Gabrieli (1931).  Mentre la Capitanata risulta, da quanto è stato finora pubblicato, la zona meno indagata specialmente per questo settore della cultura orale (pochi e miseri sono i testi pubblicati dal Tancredi [1941]), il Salento continua a rivelarsi il territorio di più salda memoria narrativa e anche di maggiore capacità rielaborativa, come risulta da rilevazioni registrate da miei allievi (A. Merendino 1970-71, R. Mellone 1979-80, e altri).  Ma, prima di accennare a una (anche questa per ora ipotetica) caratterizzazione per zone o sub-regioni, mi preme affrontare il problema delle relazioni esterne per individuare rapporti e correnti di cultura che valgano a definire storicamente e geograficamente la posizione del repertorio novellistico pugliese (pugliese in quanto noto e rappresentato in Puglia da testi dialettali o non dialettali): e però si tratta di quella particolare storicità, più ideologica che cronologica, che è possibile ricavare dalla mobilità verticale e orizzontale dei testi di tradizione orale attraverso l'esame comparativo delle forme e dei contenuti.

Il comparativista ha davanti a sé due strade: l'una che congiunge fra loro i prodotti delle diverse letterature regionali di tradizione orale circolanti nell'ambito di un'area storica determinata (pur toccando punti di diffusione esterni a quest'area in una dimensione geografica o culturale che va molto al di là della regione e della nazione, ma che è opportuno esaminare per gradi); l'altra che tende a individuare il rapporto dialettico nella stessa area storica (dove ne manchino i referenti nella singola regione, com'è per la nostra) fra i diversi livelli di creazione e ambiti di fruizione di un medesimo genere di narrativa popolare.  Le due strade s'intersecano e vanno pertanto percorse simultaneamente. Imbocchiamo la seconda, che può aiutarci a dare una direzione più esatta anche alla prima e forse può aprire nuove prospettive di analisi congiunta di materia, forma e ideologia, osservando però i processi dal basso e sostituendo come parametro critico al diagramma consueto di popolare e aulico quello socio-culturale dei diversi codici narrativi di rappresentazione del popolare.

A parte il dialetto, che va considerato sul piano della potenzialità e resa espressiva e riguarda pertanto prevalentemente il giudizio estetico, se si confronta una fiaba pugliese (pugliese nel senso fruitivo che abbiamo detto) o abruzzese, calabrese, siciliana ecc. con la fiaba o le fiabe del Basile che svolgono lo stesso tema o un tema diverso con uguali motivi novellistici, constatiamo che la letterarietà dello stile dello scrittore napoletano racchiude una popolarità folclorica e ideologica più impegnata a rappresentare la realtà

che è sottesa alla fiaba e che si costituisce come anti-fiaba, per usare una felice definizione di A. Jolles.  Quella del Basile, vista nel quadro della cultura meridionale, non è una mera elaborazione artistica di materia narrativa popolare e orale fine a se stessa, è una operazione intellettuale che, sotto il manto di una raffinatissima forma letteraria, dà legittimità letteraria e veicolazione dotta agli elementi più profondi e contestativi della struttura e concezione del mondo subalterno, opponendoli a quelli della struttura e concezione del mondo borghese: una opposizione che la fiaba popolare di tradizione orale non è riuscita mai ad esprimere in proprio per la sua estraneità al circuito della cultura ufficiale. In tale prospettiva la fiaba popolare pugliese o quella d'altra provincia dell'antico reame di Napoli si pone formalmente in antitesi ma sostanzialmente in accordo con la fiaba letteraria.

Prendiamo, ad esempio, una fiaba complessa, quella che nella presente antologia s'intitola Due figli di pescatore a palazzo reale, il cui testo dialettale è in La Sorsa III, n. XXII, pp. 99-105, coi titolo Du' figghie de pescatàure devéndene rré.  Essa è composta di due storie, corrispondenti ai tipi 300 (The Tivins or Blood Brothers, 'I due fratelli') e 303 (The Dragon-Slayer, 'L'ammazzadraghi') dell'indice Aarne-Thompson. Questa forma composita risulta diffusissima in Europa, dove pure risultano diffuse indipendentemente le due fiabe, come ha dimostrato il Ranke (1931 e 1934). La fusione sarebbe avvenuta in Francia non più tardi del sec. XIV, ma il racconto della uccisione del drago ha il suo più antico nucleo nel mito classico di Perseo e Andromeda.  Tuttavia questo rapporto col mito, che pare evidente, costituisce la preistoria del racconto, mentre la sua storia ha inizio con la formalizzazione novellistica dell'originale o degli originali da cui sono derivate le versioni dell'Europa medievale e moderna (cfr. Thompson [1946] 1967, pp. 45.58). In Italia si conoscono molte versioni, congiunte e disgiunte, delle due fiabe: ce ne danno atto le raccolte e le classificazioni regionali. La versione pugliese tiene tanto delle versioni toscane quanto delle versioni calabresi, siciliane e abruzzesi.

Più o meno equidistanti dal polo toscano e da quello siciliano risultano essere altre fiabe, in cui si riscontra solo una minima prevalenza di corrispondenze più frequenti e marcate con le versioni meridionali. Il che induce a trasferire la classifica di meridionalità sul piano funzionale, mentre conferma la grande mobilità, preminentemente orale, della materia novellistica. Tale mobilità è, però, anch'essa almeno in parte storicizzabile, sia nel passaggio dalla forma orale a quella scritta e viceversa, sia negli scambi culturali che si sono avuti tra paesi, stati e regioni. Anche nel repertorio pugliese di novellistica orale si rispecchiano fasi e momenti di un tale movimento esterno e interno: quello esterno fu particolarmente intenso ed esteso con gli stati centro-settentrionali della penisola italiana in età aragonese, che fu senza dubbio l'epoca più produttiva e fruitiva di tale materia. Esso coinvolse politicamente e culturalmente nel suo insieme tutto il reame di Napoli, ma si sviluppò in particolar modo per ragioni commerciali in qualche singola provincia o regione: la Puglia fu particolarmente interessata alle relazioni marittime con Venezia e con i centri orientali del mercato europeo cinquecentesco. Il movimento interno è costituito dalla circolazione interregionale di racconti popolari e letterari, favorita da scambi e ricambi di varia natura che si sono avuti in età medievale e moderna, alcuni dei quali sono continuati fino ad oggi: veicoli di trasmissione di cultura orale narrativa sono tanto i pastori che migrano dall'Abruzzo in Puglia e viceversa seguendo il ciclo di una transumanza annuale che si ripete ininterrottamente dall'antichità, quanto i contastorie siciliani che ancora occupano qua e là qualche piazza di paese pugliese, come Canosa: essi, è vero, recitano in versi più che raccontare in prosa (non mi risultano in Puglia cantastorie ambulanti), ma taluni racconti popolari dipendono direttamente da canti narrativi appartenenti al repertorio dei cantastorie di professione. Il Mezzogiorno adriatico (Abruzzo e Puglia) va, dunque, ricongiunto ai due massimi poli del triangolo storico della cultura meridionale (Sicilia e Napoli), i cui lati andrebbero percorsi interamente attraverso le regioni intermedie.

Che la Sicilia sia stata per la narrativa popolare di tradizione orale un potente centro di irradiazione è incontestabile; ma non si può escludere che altrettanto fertile sia stato l'ambiente napoletano, dove la trasformazione o rielaborazione letteraria fu più immediata e continuativa, sì da rendere possibile in alcuni casi una popolarizzazione di ritorno della materia orale, una volta assunta nella sfera aulica, come sembra essere avvenuto per la fiaba delle Tre melarance, che dovunque (anche in Puglia). segue lo schema fissato nel Pentamerone (cfr.  Thompson [19461 1967, p. 144).  Il che, però, è avvenuto di rado, ché nella maggioranza dei casi in regioni di periferia, come in Puglia, la materia narrativa orale rimase estranea a quella elevazione di tono e di significati che si ebbe a Napoli attorno alla corte, per adulazione o satira.  Ci è pressoché ignoto, perché allora nonrilevato e scarsamente raccolto dopo, il repertorio novellistico napoletano di tradizione orale a cui certamente attinse Basile, le cui novelle sono - come dice il Thompson ([1946] 1967, p. 260) - «o vere e proprie fiabe orali o fiabe di origine letteraria, ma già assorbite dal folclore italiano», fiabe, comunque, «che, spesso, fanno la loro prima apparizione letteraria proprio in queste raccolte [di Straparola e di Basile]». Epperò tutto lascia supporre che il repertorio novellistico napoletano non fosse molto diverso da quello siciliano, calabrese, pugliese, abruzzese, che ci è stato trasmesso oralmente e che è stato dall'800 in poi raccolto dai demologi, nonché rielaborato da scrittori d'ispirazione popolare che non mancano anche in Puglia (anche se una ricerca volta a individuare i collegamenti tra tradizione scritta e orale, che pur s'intravedono soprattutto nell'Ottocento salentino, è ancora da tentare).

Rispetto al repertorio noto dell'area meridionale - e qui teniamo presente per l'occasione quello pugliese, ma altrettanto eloquente sarebbe quello abruzzese o calabrese, per non dire del siciliano, di più salda costituzione e maggiore autonomia -, la originalità del Pentamerone non consiste solo nella forma, che è letterarizzata al massimo e infusa di magnifico barocco (e anzi per questo non si tratta tanto di originalità quanto di novità professionale e culturale dell’autore), ma nella tendenza propria dei letterati del Cinquecento europeo di ricondurre la materia novellistica al suo originario potenziale di rappresentazione, tragica o comica, reale o figurale, dritta o rovesciata, dei più elementari e vitali bisogni umani della carne e dello spirito, alternando nello stile il basso al sublime e facendo affiorare o esplodere l'elemento corporeo e carnevalesco in modo più eccentrico e dirompente, tale da superare le barriere dimesse e stagnanti della novellistica di solo uso e consumo popolare. In questa prospettiva mi pare calzante vedere, come fa Calvino, nell'arte di Basile la manodopera di un 'deforme Shakespeare.', ma altrettanto se non più appropriato è forse riconoscere nell'autore del Pentamerone sotto la maschera giocosa il volto serio, bachtinianamente scopribile, di un Rabelais.  Ché quello di Rabelais nei confronti con la cultura popolare non fu un caso isolato, bensì un costume letterario diffuso e, ancor più, un progetto intellettuale di vaste proporzioni, volto a immettere l'elemento fiabesco in letteratura e a farne un'arma dal dolce taglio contro il sistema borghese e i suoi tabù.

Proprio la novella dei Due figli del mercante, che occupa il trattenimento VII della prima giornata del Pentamerone, confrontata con il suddetto racconto pugliese di Due figli di pescatore a palazzo reale (v. p. 51 della presente raccolta) e con le corrispondenti versioni delle regioni meridionali, ci offre alcune significative prove di un tale salto e stacco formale della narrazione. La quale ne acquista in spessore ideologico con le similitudini popolaresche e le metafore scolaresche nel loro stridere al contatto con le formule barocche di stile salottiero: con forza non posseduta dalla maniera popolare di raccontare 'storie', come queste, se non più di queste, quelle similitudini e metafore scolaresche sono consustanziali alla ideologia popolare dell'autore.  L'elemento corporeo e carnevalesco affiora, infatti, soprattutto in alcuni intermezzi in cui si dà la stura al mondo della crapula e del sesso, come nell'addio a Napoli di Cienzo che riecheggia e quasi ripete in qualche passo l'addio del Carnevale morente al suo esercito culinario nei tradiziona1i contrasti con la Quaresima: “Addio, pastinache e foglie molli; addio, zéppole e migliacci; addio, cavoli e tarantello; addio, caionze e centofigliuole; addio, piccatigli e ingrantinati!” (cito dalla traduzione di B. Croce). E non mancano immagini di matrice carnevalesca che, meglio di quelle d'uso letterario e poetico, valgono a precisare sensazioni individuali e collettive, come si evidenzia nel finale di questa sequenza: «E, mentre così dicevano, ecco, dal fondo di una cavernaccia, uscire il dragone: oh mamma mia, com'era brutto! Fa' conto che il sole si rimpiattò per paura dentro le nuvole, il cielo s'intorbidò e il cuore di tutta quella gente si mummificò; e tale fu il tremito che non le si sarebbe potuto infilare per clistere nemmeno un pelo di porco».  Questo scenario è una delle invenzioni del Basile che hanno profonde radici nella cultura popolare tradizionale ed è coerente col motivo dell'allontanamento di Cienzo: l'accidente capitatogli durante una sassaiuola di aver fracassato la testa del figlio del re di Napoli. Questo motivo ha pure una sua specifica storicità, data dalla situazione politica reale del rapporto tra monarchia e popolo, che esso intende mettere in piazza con un episodio di zuffa tra ragazzi.

Un altro esempio vistoso si ha nella Cerva fatata del Pentamerone, dove l'evento magico del parto viene così dilatato alle cose: «[... ] di lì a pochi giorni, figliarono; e la trabacca del letto fece un lettuccio, il forziere uno scrignetto, le sedie sedioline, la tavola un tavolino, e il cantero un canterello verniciato così bello ch’era una delizia». Una tale lievitazione carnevalesca è sconosciuta alla fiaba popolare, che si limita nella versione pugliese (come in quella siciliana) a riportare il suggerimento e il vaticinio del pesce al pescatore e il suo avverarsi, eseguito che fu il suggerimento del pesce, con lo stile e il tono di un fatto reale e naturale: «”Ora puoi uccidermi.  Solo ti raccomando di piantare le mie due pinne in un campo e di serbare in due bottigliette il mio sangue. Dopo un anno vedrai che tua moglie partorirà due bambini, la giumenta due puledri e la cagna due cagnolini.” Il pescatore eseguì quanto gli veniva suggerito e allo scadere di un anno si avverò tutto quello che gli era stato predetto ». La differenza è notevole e consiste in ciò. Mentre il narratore popolare lascia o fa rientrare l'elemento magico e straordinario nella dimensione del reale e del normale, Basile fa straripare l'elemento magico e straordinario rimarcando la duplice dimensione reale e irreale, ma dando nello stesso tempo all’irreale una connotazione fortemente realistica con motivi, tratti, immagini e espressioni del grottesco fisiologico, che ottiene risalto per contrasto dall'uso sapientissimo di uno splendido linguaggio barocco.  Insomma il Basile conferisce ai due racconti dei Figli del mercante e dellaCerva fatata, oltre che un colorito stilistico nuovo, uno spessore ideologico di matrice popolare che la corrispondente fiaba congiunta di circolazione orale nelle stesse regioni meridionali non riesce a esprimere. Questa, come si nota nella versione pugliese, conforme alla tradizione europea, fa accordare senza nodi forzati il tema dell'ammazzadraghi a quello dei due fratelli.

La via del comparativismo verticale fra la base popolare e il suo apice letterario, nel rivelarci un rapporto fra le due fasi non di palese opposizione ma di profonda relazione, in cui la differenza è data (contrariamente a quanto si crede) dal maggior carico di effervescenza folclorica che la creazione o elaborazione dotta riesce a riversare nel testo narrativo, porta a rivedere l'opinione corrente sul fronte demologico, che assegna un maggior grado di contestatività al prodotto popolare.  La satira, per sua natura, è tanto più forte quanto più è coperta dal manto della letteratura; così pure taluni nessi simbolici di antico e vitale significato etnologico, come quello di sesso-prosperità-defecazione, che costituiscono il perno del moto rivoluzionarlo della cultura carnevalesca, vengono messi allo scoperto dal sapientissimo gioco delle metafore attraverso una ridondanza di epiteti, sinonimi e accrescitivi in serie.

Un così dilatato universo folclorico ideologicamente finalizzato e letterariamente espresso con un irrompente flutto verbale manca o meglio è sommerso nella favolistica popolare da cui quella letteraria si è sviluppata con un altro linguaggio e per un diverso pubblico: il linguaggio della cultura ufficiale e il mezzo della scrittura offrono al narratore, in questi casi di parallelismo funzionalmente differenziato, ben maggiori possibilità di rendere folcloricamente il messaggio di idee e concezioni opposte a quelle della cultura ufficiale. C'è da dire anche che il pubblico della corte è più idoneo dello stesso pubblico della piazza a percepire il messaggio nella sua forma iperfolclorica.

Il linguaggio del narratore popolare ha, però, dalla sua parte potenzialmente due elementi che lo caratterizzano nei periodi di effettiva funzionalità sociale e culturale dell'attività narrativa a livello popolare. Uno è costituito dall'aderenza al canone del mito come coscienza e regola narrativa, sin dalla formula iniziale del “c'era una volta”, finché questa mantiene la sua pregnanza mitica di fatto vero avvenuto una volta e ripetibile tutte le volte che si racconta. Oggi, al contrario, il “c'era una volta” viene ripetuto dal narratore e suona a chi ascolta come il primo segnale d'irrealtà di ciò che sta per essere narrato. Né il termine 'storia' con cui viene denominato ogni racconto può dirsi che tradisca l'ascendente delle 'storie' medievali narranti imprese e vite di eroi e di santi, credute vere.  Ché anzi 'storia' indica proprio un racconto non vero e di poco conto.  L'altro elemento caratterizzante l'oralità del narrare popolare è il gesto, il cui apporto espressivo compensa l'assenza di materia verbale. Entrambi, canone mitico e modo gestuale, colti in condizioni ottimali d'impiego, che sono quelle di sintonia funzionale, concorrono a ripetere il fatto al momento in cui viene raccontato e rendono superflua la descrizione verbale.  Da qui la secchezza e laconicità del linguaggio narrativo orale, che non vanno attribuite a, povertà espressiva ma al senso di concretezza e di aderenza al vissuto individuale del narratore popolare, anche se, pur così generalmente caratterizzato, il suo linguaggio si differenzia da area ad area e da regione a regione ed è ovviamente più scarno là dove, come in Puglia, manca una tradizione narrativa aulica di materia popolare che abbia potuto o possa tener viva dialetticamente quella delle classi subalterne, che oggi potrebbe trovare forse solo nella funzione letteraria la sua ragione di vita.

Tra i fatti stilistici e linguistici nei racconti pugliesi e in gran parte comuni alla novellistica meridionale di tradizione orale sono: la prevalenza del discorso diretto e il predominio della costruzione paratattica; l'uso ridotto di sostantivi astratti e la personifìcazione di essenze spirituali, come “anima”, che ha il significato di persona; scarso impiego di aggettivo qualificativi, alcuni dei quali sono polivalenti, come “forte”, che spesso sta per ricco o potente (nu forte tesoru, n'omu forte), dove si noterà come l'estensibilità dell'idea di forza a quella di ricchezza e potenza segue un paradigma ideologico tipico delle classi subalterne meridionali; la forma del superlativo con l'aggettivo ripetuto (puerieddi puerieddi, 'poverelli poverelli', asatte asatte “esatto esatto”); fitto impiego di dimostrativi; quanto ai verbi e alle forme verbali si notano le stesse caratteristiche del linguaggio popolare d'uso quotidiano, con prevalente uso del presente, che assume il valore di futuro con l'avverbio di tempo (tu mo crai passi,'domani passi').  Se ne può dedurre che il linguaggio dei narratori popolari pugliesi e meridionali in genere non solo è lontanissimo dal linguaggio dei narratori letterati, ma ha altresì ben poco della convenzionalità rilevata in altre aree e forse eccessivamente generalizzata. La esemplificazione di tutto ciò si ricava meglio dal vivo del rilevamento; ma è riscontrabile anche in vitro nei testi di questa raccolta, che Cassieri ha tradotti in prosa popolare d'arte con sapiente e cosciente fedeltà.

Lungo l'asse del confronto verticale si possono cogliere nella stessa area meridionale differenze notevoli non formali che riguardano la qualifica dei personaggi e la resistenza o mutazione dell'elemento magico.

Ai fini dell'analisi morfologica di tipo proppiano contano, è vero, le azioni, non i personaggi. Ma i personaggi hanno rilievo ai fini di un'analisi sociologica e congiuntamente di una storicizzazione dei testi in fasi di creazione e fruizione. La fitta presenza di re e principi come attori di azioni magiche buone e cattive nelle novelle di Basile (come già in quelle di Masuccio Salernitano) per un verso è coerente con la tradizione medievale dei maghi e taumaturghi, per altro verso è riferibile alla specifica situazione politica del Regno di Napoli tra quattro e cinquecento e rispecchia le luci e le ombre della monarchia aragonese al suo tramonto e in un momento di forte scollatura fra popolo, intellettuali e potere regio e baronale. Il compito e l'intento del letterato cortigiano illinc et tunc era quello di adulare e colpire i potenti attraverso la finzione favolistica. Re e principi, regine e principesse compaiono sì ancora in gran numero nelle fiabe meridionali di tradizione orale, ma per lo più non nel ruolo di protagonisti, il cui posto è preso o ripreso o continua a essere occupato da contadini, pastori e pescatori, eroi del paradigma narrativo evangelico in cui si identificano i personaggi reali, da sempre i più rappresentativi, del mondo popolare.  Ma quel che può essere un carattere comune di distinzione fra novellistica letteraria e popolare diventa, nell'ambito storico e geografico specifico del Regno di Napoli nei secoli XV e XVI, un riflesso assai significativo della distanza e separatezza dalla sovranità e dalla capitale del Regno, in cui sono state tenute le popolazioni delle province continentali. Una controprova ne è la affinità ben maggiore, sempre però dal punto di vista contenutistico, che mostrano, nei riguardi delle novelle del Pentamerone, i racconti popolari siciliani anche per il mantenimento di protagonisti di abito regale: il che è, almeno in parte, attribuibile al ruolo di altra capitale avuto da Palermo, oltre che - s'intende - alla tradizione narrativa fiorita in Sicilia simultaneamente a livello aulico e popolare.

La diversa qualifica dei personaggi è insieme di ordine culturale e sociale. Esso incide sullo svolgimento del racconto. Il pesce miracoloso viene pescato da un povero pescatore nella versione pugliese, come pure in alcune versioni siciliane, ma da un re in due versioni siciliane, che peraltro riportano motivi comuni al Pentamerone e assenti nelle altre. I due fratelli sono figli di un povero pescatore nella versione pugliese, mentre sono figli di un ricco mercante nel Pentamerone (I/vii e ix): le rispettive narrazioni ritraggono segni e comportamenti conformi a umili pescatori e a ben avviati mercanti.

Nelle fiabe pugliesi l'ambiente contadino è generalmente rappresentato dalla figura dello zappatore: vedi in questa raccolta i racconti intitolati Chi fa e chi non fa, L'insano desiderio, Una ragazza giudiziosa, Le cento facce e altri. Ma neppure questo è singolare della novellistica pugliese: ritroviamo con pari frequenza lo stesso personaggio-protagonista nelle fiabe abruzzesi, lucane e calabresi. Altresì comune alle regioni contermini, che integrano la periferia del Regno di Napoli, è il processo di cristianizzazione dei personaggi risolutori o adiutori e della stessa arma offensiva e difensiva del magico che essi usano: santi, protettori e madonne salvatrici hanno il ruolo che svolgono maghi e streghe di professione nella favolistica nordica, re e principi dotati di poteri magici nella favolistica letteraria dei narratori di corte. L'andamento del racconto, che nella rilevazione orale si misura soprattutto sul tono della narrazione, tende all'apologo: il racconto, di qualsiasi specie esso sia, è ora per lo più un fatto che vive solo nella memoria del narratore e viene ripetuto per rappresentare il passato, quando la narrazione, pubblica o privata, aveva una funzione pratica nel sistema di vita comunitaria.

A questo punto, se si vogliono storicizzare tali caratterizzazioni, che ineriscono anche ma non solo alle fiabe pugliesi, dobbiamo volgerci dal confronto diacronico sull'asse verticale dei diversi livelli di formalizzazione ed elaborazione dei testi narrativi nell'area meridionale al confronto sincronico interregionale per registrare la cospicua consistenza delle somiglianze e identità di forma e contenuto del singoli testi della Puglia, dell'Abruzzo, della Basificata, della Calabria e della Sicilia.

Su questo piano di confronto orizzontale è maggiore il rischio di una delimitazione e caratterizzazione forzata di temi, motivi e forme, se non vengano individuate le relative matrici storiche nell'ambito di una meridionalità che è per tanta parte europea e per tanta parte mediterranea. Le due matrici si sovrappongono, le due correnti s'intrecciano e s'influenzano reciprocamente, sì che è difficile distinguerle. Comunque, le non poche affinità che si possono constatare con un'analisi particolareggiata fra le versioni pugliesi e le versioni neogreche di racconti circolanti in Europa si devono alla comune cultura mediterranea. E non è un caso che tali affinità coincidano per lo più con quelle già notate fra versioni siciliane e versioni neogreche. Così è, ad esempio, per il racconto qui intitolato L'insano desiderio, vicino al testo greco di Hahn (1864, n. 27) e alla siciliana (catanese) Pelle di gatto (Aa.  Th. 510 B; cfr.  Lo Nigro, p. 87).  Altre fiabe di magia e in particolare le favole di animali, non rappresentate in questa raccolta (come L'uomo e il serpente di Castrignano [Morosi, pp. 75-761) danno ulteriori prove di una vicinanza non fortuita, dovuta a fattori di ordine geografico, storico e culturale, fra i testi pugliesi e il repertorio favolistico neogreco di antica tradizione greco-orientale.

All'interno della duplice orbita europea e mediterranea certe corrispondenze tematiche e formali dei prodotti di narrativa popolare sono attribuibili a fatti storici non fissabili in periodi cronologici determinati, in quanto dovuti a processi di lunga durata e di ordine culturale, sociale ed economico, che hanno tenuto sia pur relativamente collegate le regioni dell'Italia meridionale.

Penso, in particolare, alla corrente letteraria e linguistica che accomuna tanta produzione siciliana, calabrese e salentina: in questa corrente s'inserisce una canzone narrativa di probabile origine calabrese che ha in Puglia versioni poetiche molto belle, con l'avvio nell'antica forma metrica siciliana del doppio settenario sdrucciolo e piano, e prossime alle calabresi, e ha anche una versione in prosa intitolata U calabrese ingannatore (La Sorsa 1927, p. 281).  Questa canzone sviluppa un motivo novellistico diffusissimo (Aa.  Th. B.   291 e tipo 311*), qual è quello della sostituzione della sposa, la sorella minore e più bella con la maggiore e più brutta (cfr.  Thompson [1946] 1967, p. 173, che nell'Italia meridionale riflette usi e pregiudizi legati all'ordinamento patriarcale della famiglia.

Per la Capitanata penso al continuo scambio, cui ho già accennato, di lingua e prodotti orali che si è avuto tra la Puglia e l'Abruzzo con le migrazioni della transumanza pastorale. Anche i pellegrinaggi hanno certamente avuto una grande influenza per tale movimento e conformazione della novellistica orale.  Attraverso i pellegrinaggi devono essere circolati specialmente i racconti di argomento religioso sulla Vergine e sui Santi, come La bontà di Sant'Antonio (p. 164)La Vergine strappa due anime al diavolo (p. 166), Gli scherzi del Signore (p. 168), San Pietro brontolone(p. 173) e altri simili, che pur si rifanno a tipi e motivi internazionali, ma che sono scarsamente attestati nei repertori italiani, forse perché appartengono a un'aneddotica religiosa di carattere scherzoso trascurata dai classificatori della novellistica popolare delle regioni italiane. Mi limito a rilevare la corrispondenza tra Gli scherzi del Signore di questa raccolta (corrispondenti al tipo 774 di Aa.  Th.) e il n. *828/14c dell'indice siciliano del Lo Nigro; mentre il San Pietro brontolone pugliese dei tipi 750 A e 759 di Aa.  Th. trova, qualche riscontro nella novellistica calabrese e lucana, dove la diversità tra galantuomini e cafoni è motivo di un contrasto fra San Pietro e Gesù nel momento di plasmare il cafone: San Pietro lo voleva con un sol occhio, in modo che lo si potesse conoscere da lontano ed evitare d'incontrarlo, Gesù era invece contrario, sostenendo che il cafone può anche diventare galantuomo (cfr.  Pasquarelli, Folklore calabrese, IV, 1918, pp. 7-12).  Non mancano, del resto, in alcuni di questi racconti religiosi riferimenti specifici a pellegrinaggi, che proprio per la loro irrilevanza ai fini dello svolgimento della trama del racconto sono spie della localizzazione di quei racconti.  È il caso del riferimento al pellegrinaggio a San Michele sul Gargano nell'Orco e le galline (p. 133), che appartiene al tipo 883 A dell'Aa.  Th., ma che non ha corrispondenze nei tre indici novellistici regionali italiani, se si eccettua il n. 709 q del D'Aronco, in cui, però, non compare il protagonista della fiaba pugliese, che è l'orco.

I rapporti commerciali che la Puglia ha avuto con l'Oriente e con Venezia in età medievale e moderna hanno lasciato qualche traccia anche nella letteratura narrativa dei marinai pugliesi. Un vecchio marinaio di Molfetta, cieco di un occhio e analfabeta, riferì al La Sorsa, fra il 1930 e il '36, la canzone di Bellafronte in dialetto molfettese, che qui compare tradotta col titolo Affari di cuore (p. 122). Le vicende narrate in questa canzone ruotano intorno al motivo del 'morto riconoscente', che è uno dei più fecondi della novellistica d'arte e popolare (Aa.  Th. 505-508; BoltePolivka III, pp. 490 sgg.), come fece notare Vidossi (1936).  Il testo dialettale pugliese in versi sembra accostarsi a un poemetto popolare del sec. XVIII, che fu divulgato da varie stampe dell'Ottocento. Si tratta della Istoria bellissima di Stellante Costantina figliuola del Gran Turco, la quale fu rubata da certi cristiani che teneva in corte suo padre e tu venduta a un mercante di Vicenza presso Salerno, composta da Giovanni Orazio Brunetto. Ma alcune notevoli divergenze e soprattutto la forma metrica della canzone molfettese, che non ha nulla delle ottave del poemetto del Brunetto ed è forgiata sullo schema dei canti narrativi dell'Italia centromeridionale in endecasillabi raggruppati forse in distici o forse in lasse, lascia supporre l'influenza di altre fonti più antiche di tradizione orale.              I

Origine medievale, non tanto per il personaggio a cui l'episodio leggendario viene riferito quanto per il suo innestarsi su un tema favolistico classico, si può a maggior ragione riconoscere a Gli intoccabili (p. 120).  Questo racconto ricalca, come quello analogo raccolto una sessantina d'anni fa tra i contadini di Avigliano (Basilicata), il mito ovidiano (di origine macedone secondo Erodoto) del re Mida (Aa.  Th. F. 511. 2. 2; cfr. Thompson [1946] 1967, p. 372).  Questi punì con la morte il barbiere che aveva svelato alla terra il segreto delle orecchie d'asino del suo sovrano. La leggenda è stata riplasmata nella forma moderna in Croazia intorno alla figura dell'imperatore Diocleziano, crudele persecutore dei cristiani, e si è diffusa in Europa adattandosi a vari personaggi storici. È uno dei tipi novellistici in cui il protagonista, se è irrilevante per la struttura del racconto, rappresenta un referente storico variabile,a seconda dei luoghi. La scelta del personaggio risponde a un legame reale che esso ha avuto o si ritiene abbia avuto col territorio. Tale legame è sempre segnato da una costruzione di grande spicco: per il suddetto racconto in Croazia è il maestoso palazzo presso Spalato, che Diocleziano si fece costruire a Salona, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita; in Puglia e Basilicata sono i magnifici castelli federiciani di Castel del Monte e Lagopesole, che la tradizione popolare attribuisce a dimore di Federico Barbarossa, prima e oltre che di Federico II. Un'analoga formazione archeologica, cioè legata a imponenti costruzioni venute alla luce dagli scavi archeologici, hanno le leggende virginiane pugliesi sorte nei luoghi che si ritiene o s'immagina siano stati visitati da Virgilio: il quale, di fatto, soggiornò a Brindisi e vi morì nel 19 a.C. Ma nei racconti di tale categoria il dato storico viene sommerso durante la sua lievitazione leggendaria, che rende magici il personaggio e le sue azioni, onde spesso il tipo di narrazione diventa disponibile a personaggi diversi e di diverse epoche. Anche in questo genere la storicità e località dei relativi racconti è di adozione.

La diffusione internazionale della maggioranza dei tipi dei racconti popolari pugliesi lascia, dunque, un minimo spazio alla individuazione di oicotipi pugliesi. Ciò vale anche per le altre regioni, per cui è estremamente rischioso e forzato estrarne elementi connotativi di una cultura e società regionale dimenticando la ripetibilità di questi elementi al di là e al di sopra di tempi e luoghi determinati, e non tenendo conto, pur in una stessa area, della non simultaneità dei processi culturali e sociali. Si possono soltanto indicare alcuni temi e motivi narrativi che si sono innestati con maggiore fecondità nella cultura popolare pugliese, partecipe allo stesso grado della cultura occidentale europea, latina e germanica, e della cultura orientale greco-mediterranea.

La fortuna, che è tra i motivi più presenti nella novellistica popolare pugliese, è concepita sia come fato imperscrutabile, proprio del mondo greco-mediterraneo, sia alla maniera medievale come entità cieca o bendata che con la sua ruota rende o toglie ricchezze. Vi ritroviamo il motivo specifico del tesoro nascosto rinnovato dal contadino mentre zappa (vedi nel racconto Il Pan d'oro di questa raccolta: p. 80), il cui archetipo medievale letterario ci è dato da Dante (Conv.  IV e D.C. If.  VII, XV, Pd.  XVI).  Di stampo medievale è anche la contesa tra la Ricchezza e la Morte, di cui a far le spese è il contadino Cola (in La scelta crudele, p. 84).  E c'è pure lo scontro fra La Miseria e la Morte (nell'ultimo racconto qui tradotto), che, pur inserendosi nel circuito europeo occidentale - popolare e letterario (soprattutto in Francia [Aa.  Th. 330 A]) - di questo tema, riceve fra i poveri del sud una speciale connotazione economico-sociale, dichiarata nel finale, allorché la perfida Morte, prigioniera sull'albero, una volta concluso il patto con la maliziosa Miseria, «scese dall'albero nera di vendetta e cominciò a seminare terremoti, pestilenze, colera e altri terribili castighi di Dio che distruggevano l'umanità. Uno dopo l'altro scomparvero popoli e paesi, sudditi e sovrani, tranne la Miseria, che [... ] esiste tuttora e chissà per quanto esisterà sulla faccia della terra». Aiutanti magici per eccellenza sono i folletti in tutta la favolistica europea, mediterranea e nordica (le fiabe irlandesi raccolte e raccontate da W.B. Yeats ce ne danno una casistica foltissirna).  Li ritroviamo massimamente attivi nei racconti salentini (Le palle d'oro, Il folletto aggiustatutto, Lo Scazzamurello innamorato, Altre storie dello Scazzamurello), in corrispondenza con la credenza, radicatissima nel Salento, ma diffusa anche nella Puglia settentrionale e centrale, della esistenza e dell'azione invisibile di questi piccoli esseri diabolici, che fanno favori e dispetti a non finire.  Dal loro aiuto dipende soprattutto il ritrovamento di tesori nascosti: per tale funzione il folletto salentino mostra di essere l'erede diretto dell'incubus operante nel mondo classico, come testimonia, fra gli altri, Petronio nella Cena Trimalchionis. È altresì interessante osservare il potere metamorfico del folletto, per cui, ad esempio, nel racconto Le palle d'oro (p. 99) il folletto compare e agisce in forma di serpentello.  Nelle credenze magico-religiose delle culture agrarie il serpente reincarna lo spirito degli avi, per cui nella favolistica può figurare come padre (cfr.  Propp 1972, p. 439) e a questa credenza si riferisce la bella otrantina Maria, nel suddetto racconto, allorché così si rivolge al folletto-serpentello che le appare d'improvviso in mezzo alla stanza: «'Uh!' disse 'chi sei tu, l'anima della mia mamma o quella di mio padre?'».

Dell'età moderna si è riflessa nei racconti popolari l'idea del brigantaggio come storia contadina. Da qui la figura del brigante-galantuomo nel racconto così intitolato in questa raccolta (p. 68), mentre nelle versioni siciliane del tipo 950 dell'Aarne-Thompson, a cui appartiene il nostro racconto, il ladro del tesoro del re, che viene alla fine riabilitato e premiato per la sua abilità dallo stesso sovrano, è un muratore.

L'ondata veristica e l'ideologia sottesa al recupero in re o in proprio della narrativa popolare orale, nella particolare duplice forma che si ebbe in Sicilia, alimentarono la formazione o lo sviluppo di racconti che si attengono alla filosofia popolare delle 'parità morali' esposta e documentata dal Guastella (1884), in quanto rivendicano una uguaglianza umana contro la disuguaglianza economica e sociale stabilita dal destino della nascita, cui si contrappone talvolta la mobile, benefica o malefica, fortuna. V'è qualche fiaba che si svolge proprio a dimostrazione di una verità proverbiale. Così nel citato racconto presente in questa raccolta col titolo Chi fa e chi non fa si prova che «la fortuna fa i soldi» e non il contrario come è abituato a credere il contadino: la storia s'inizia e si chiude con questa massima.

Vi sono poi istituti della società contadina che trovano il loro riconoscimento nei racconti popolari. I riferimenti più numerosi riguardano il comparatico e il vicinato. Versioni dei tipi 332 e 425 dell'Aarne-Thompson, registrate di recente a Collepasso nel Salento, confermano la considerazione dei compari di battesimo e di cresima, che vengono scelti tra persone o della stessa classe sociale o di classi superiori: medico, avvocato o prete; quest'ultimo è chiamato 'signore compare' dal contadino in racconti salentini dei tipi 708 e 841. Altri racconti sottolineano l'importanza del vicinato. Il legame tra i vicini viene codificato in regole di vita comune: la vicina accudisce spesso per molte ore della giornata il bambino che le viene affidato dalla madre che va a lavorare in campagna. Il vincolo di vicinato fa sì che le due comari si ameranno comesuredde; ma non è raro il caso che ne scaturiscano tensioni, ostilità, inimicizie, perché dice il proverbio: quantu kiù kiove kiù mprima scampa, con duplice (ambivalente) allusione all'improvviso sorgere e alla rapida soluzione della lite.

Naturalmente una più libera e più diretta riflessione di usi e credenze nella narrativa popolare si ha negli aneddoti e nei racconti locali, non classificati negli indici di tipi e motivi di Aarne-Thompson. Tuttavia le corrispondenze facilmente rintracciabili sono difficilmente circoscrivibili; anche per la formazione di aneddoti e racconti locali esistono schemi fissi che si riempiono di ingredienti e motivi esistenziali comuni a tutta un'area storica pluriregionale.

Né sono connotativi di pugliesità dei racconti e neppure delle loro varianti i riferimenti a paesi e fatti locali (il re di Vieste, burrate di Andria, alle porte di Taranto, alla locanda di Taranto, briganti di Bovino, mezzadri e massari di Canosa e Molfetta, Monte S. Angelo, calzolaio di Terlizzi, S. Cesareo, santuario dell'Incoronata ecc.). Si tratta di dati sovrapposti, nella fase di composizione o in quella di esecuzione del racconto, e servono ad aumentarne la credibilità, o meglio a trasmettere al pubblico o all'ascoltatore singolo la convinzione del narratore che si tratta di 'storia vera': con questa denominazione il narratore distingue un fatto realmente accaduto dai fatti fantastici, denominati semplicemente 'storie'.

Stereotipato secondo moduli di larga diffusione italiana ed europea è il formulario d'inizio e di chiusura, che il lettore, pugliese o non pugliese, troverà familiare. Vana è, dunque, la ricerca di una pugliesità di contenuto e di forma nei testi che la scrittura (e la stampa) del raccoglitore ha resi anonimi (la citazione del solo nome di chi ha narrato per lo più occasionalmente il racconto ha valore pressoché nullo), mentre un tempo erano sì collettivi ma segnati da una personale e rinnovata oralità del narratore. È possibile, invece, cogliere la individualità del narrare (sia pure solo nella fase di registrazione che sempre la condiziona) negli ultimi narratori viventi, la cui personalità e pugliesità (in senso anagrafico, sociale e culturale) si trasmette ai racconti, noti o non noti, che essi narrano.

Uno di essi è Alfredo Paglialunga di Collepasso.  Ha raccontato ventinove racconti a un mio allievo (Mellone 1979-80), il quale ha notato come egli inseriva spesso nel racconto considerazioni personali sulla diversità dei tempi attuali rispetto al passato, dicendo, per esempio, dei giovani che si troveranno male perché non ascoltano i vecchi, e così, infatti, concludeva il racconto I vecchi sono saggi (Aa.  Th. *981), già rilevato dal La Sorsa (1927, pp. 196-199, senza questa chiusa) e da DiS (1975, p. 247): Li vekki se tenene pe' cunzij, ma moj, li giovani te moi nu mbolene li vekki pe' cunzij, comu olene fazzane, fazzane, na quiddu è sciutu e s'à manatu intra la cisterna (Mellone 1979-80, p. 43. (Si riferiva al suicidio di un diciassettenne di Collepasso avvenuto proprio lo stesso giorno in cui fu registrato il testo.)

Ma vediamo da vicino come è vissuto e che cosa narra e come narra il contastorie di Collepasso: Alfredo Paglialunga è nato il 21-2-1925. È analfabeta. Con orgoglio afferma di essere nato nell'anno santo (addu utu la furtuna cu nascu propriu all'annu santu); ma aggiunge che per ironia della sorte è nato cieco e fu abbandonato dai suoi genitori all'età di un anno. Da allora è passato da un istituto di beneficenza all'altro. Fino a venti anni fa viveva in un ospizio per vecchi.  Ora vive da solo in una casa presa in affitto: un monovano di circa 4 mq., arredato di pochi mobili (un lettino con sopra un cappotto per coperta, un armadietto, un tavolino), di una cucina a gas e di un televisore; c'è anche un'angoliera piena di fotografie con una lampada piccolissima.  Il nostro allievo rilevatore notò sul contatore della luce elettrica accanto alla porta d'ingresso un pezzo di pane bianco, che (lo spiegò lo stesso Paglialunga) è 'pane santo', cioè pane benedetto dal sacerdote il giovedì santo durante la rievocazione dell'ultima cena, ed egli lo tiene sempre lì, rinnovandolo annualmente, perché «ha molte felici funzioni», come quella di proteggere la casa da jettature, impedire l'ingresso a spiriti maligni e specialmente di scongiurare temporali: quando il cielo è nuvoloso basta gettare per strada una mollica di quel pane e il temporale si allontana, come testimoniano i vecchi, ai quali, dice Paglialunga, come un padron 'Ntoni senza famiglia, bisogna credere.  Dal 1968 lavora come servitureddu in un negozio di generi alimentari, di proprietà di una zitella, sua coetanea, Maria C., che egli menziona molte volte nei suoi racconti; non riceve retribuzione in denaro, ma (come egli stesso dice) se nu bbene pahatu a lana vene pahatu a linu, viene cioè compensato in generi alimentari: pasta, pane e olio.  Paglialunga i racconti che narra li ha imparati negli ospizi. Un tempo ne conosceva nu bastimentu, ne ha raccontati ventinove, fra aneddoti, storie vere e fantastiche. Tema predominante è la fame, una fame atavica a cui i nati poveri tentano invano di sfuggire.il Cristo, che Paglialunga nel racconto della Morte dice ingiusto, a decidere chi deve essere ricco e chi povero; è il Cristo, chegli chiama anche Fortuna, a organizzare la vita degli uomini.  Questo Cristo-destino, al quale ci si affida con un fatalistico fazza Diu, ribadisce il suo potere discriminatorio nella versione salentina (di Paglialunga) del racconto sui due compari (tipo 841 Aa.  Th.), rinfacciando al compare ricco di aver causato la morte del compare povero per avergli regalato un pane pieno di monete: «povero l'ho fatto, ricco lo vulisti, resuscitalo tu se puoi»; da confrontare con l'analoga ma meno viva chiusa della versione di Manfredonia, che qui si riporta (La Sorsa 1927, pp. 149-151), in cui del messaggio di Cristo si fa intermediario per beffa lo zio canonico.  Questi era stato beneficiato dal buon ciabattino con la prima pizza d'oro del sovrano e alla fine è proprio lui che accusa il sovrano della morte del ciabattino per non aver rispettato il volere di Dio: « Se Dio lo avesse voluto ricco non lo avrebbe fatto nascere povero.  Tu invece sei andato oltre: per farlo ricco gli hai procurato la morte ». Partecipata è la narrazione di Paglialunga, con riferimenti alla sua vita e al suo stato di cecità e povertà; parlando di un personaggio cieco dice:allora c'era unu alli condizioni mei [... ] li benefattori lu cazzane e lu vestine comu a mio lu stessu; oppure: tenìa na luce comu la tegnu jeu culla bona salute.

Quella di Paglialunga è una figura emblematica di contastorie pugliese-salentino, che porta riflesso nella sua esistenza fisica e attività reale il modello mitico di tradizione greco-mediterranea del cantore epico cieco e vagabondo.  Giova soffermarsi su di lui, anche se nella presente raccolta abbiamo riportato solo uno dei ventinove racconti da lui raccontati, perché il suo modo di narrare storie vere o fantastiche ci offre altri elementi consistenti per una caratterizzazione, non distintiva (che non può esserci) ma socialmente e culturalmente significativa, in un quadro extraregionale, della narrativa popolare pugliese.  Chimerica è la pugliesità dei racconti, effettiva è solo quella dei narratori. Le storie vere costituiscono una parte cospicua dei racconti di Paglialunga, in cui perciò si riversano fatti e nomi reali della comunità di Collepasso: Ginu il sacrestano, Mesciu ‘Ntunuccia il barbiere, e così altri.

Anche il linguaggio verbale e gestuale risponde a un codice mitico-rituale riprendendo dal vivo comportamenti e aspetti della cultura contadina meridionale.  Un esempio.  Riferendosi a un matrimonio egli dice: se spusara a 'ngrazia te Diu, cu canti, soni, divertimenti, balli e kiakkerate. Dove nulla è superfluo per la rappresentazione di un matrimonio contadino, la cui rumorosità rispetto al matrimonio borghese è un compenso psicologico e sociale alla indigenza del vivere quotidiano, come hanno ben avvertito narratori e poeti colti del mondo popolai-e, fra i quali Albino Pierro in alcuni versi dialettali lucani che traduco: «dovreste vedere quello che fanno i Rabatanesi quando c'è uno sposalizio; vi otturereste le orecchie per non sentire chitarre mandolini e mortaretti, strida di ragazzi e d'organetti, e batterie (di mortaretti) e tuoni di tamburo ».

Del codice fiabesco sono presenti nella narrazione di Paglialunga le formule d'inizio, come la classica del c'era na fiata, e di fine, come e spicciau oppure stèsera felici e contenti, con l'aggiunta interessantissima che riproduce la sequenza distributiva dei circoli aristocratici di narratori e narratrici che costituivano situazioni reali ritratte nella cosiddetta cornice delle cento o cinquanta famose giornate narrative: cuntatime n'addu ui ca nu nde sacciu kiui.  Formule come queste hanno ancora un valore connotativo del modo di narrare nel Salento se ascoltate dalla voce di un narratore semiprofessionista come Paglialunga; lo trasmettono, invece, smorzato nei testi impersonali che leggiamo nelle raccolte a stampa.  Tra i modi meno comuni di esprimere il vivere felici e contenti rileviamo in questa raccolta quello della Donna di fiore (p. 148): «contenti e contentoni / la testa loro nel pentolone»; o quello di Nerino (p. 154): «Io con un piatto di pesce fritto / e a voi lasciai questo scritto». E c'è pure qualche eco limpidissima di stile aedico della tradizione epica canterina: «Ma intanto che questi regnanti perdono tempo a salutarsi nell'androne, noi facciamo un passo indietro e torniamo alla vera Maria rimasta nuda dietro lo scoglio» (Le palle d'oro, p. 99).

Il fatto è che dei testi impersonalmente riprodotti dai raccoglitori - e sono la maggioranza di quelli tradotti nella presente raccolta - ci è impossibile risalire al narratore o alla narratrice; e anche quando vi riuscissimo ci sfuggirebbe il momento del narrare nella reciprocità del rapporto narratore-pubblico, che potrebbe rivelarci almeno parzialmente il contesto, essenziale per la significazione del testo. Scomparsa la funzione sociale, è rimasta in qualche narratore l'aspirazione a una funzione estetica, che si manifesta anche nella narrazione privata ch'egli fa al solo raccoglitore, al quale, per esempio, Paglialunga chiedeva, alla fine di ogni registrazione, se i suoi racconti fossero più belli di quelli degli altri narratori. Da recenti ricerche sul campo risulta che il saper raccontare storie non è sempre un titolo di merito, ché anzi spesso è oggetto di maldicenza, per l'evolversi stesso del codice sociale, specie quando i racconti svelano comportamenti e fatti reali della comunità. È il caso di una narratrice salentina, chiamata Tota, settantacinquenne analfabeta, che da giovane conosceva, a suo dire, moltissimi racconti; pochi ora ne ricorda di quelli che apprese quando andava a lavorare in tabacchificio e che raccontava ai suoi, figli e ai bambini del vicinato; ma sono proprio i vicini ora a reputarla intrigante chiamandola 'la segretaria', per cui non vuole che essi sappiano che quei racconti li narra ad estranei ed è stata accorta nell'usare nomi fittizi al posto di quelli di persone del paese, che sono i personaggi delle sue storie.

La frantumazione dei nuclei, luoghi e momenti aggregativi della società contadina meridionale ha determinato altresì la perdita di altre funzioni, un tempo preminenti, del narrare, come la funzione dilettevole e la didascalica, che nella effettiva realtà erano combinate e non separate come vuole la distinzione romantico-grimmiana di fiabe e leggende. L'arte attiva del narrare è una delle espressioni della oralità creativa tradizionale maggiormente coinvolte nel processo di trasformazione della società.  Il demo-antropologo non può che fare storia di un'arte sommersa, individuando (fin dove gli è possibile) le caratteristiche testuali e contestuali della fase attiva e di quella che tale non è più.

Giovanni Battista Bronzini