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POVERE PICHE MIE

Voi sapete, miei cari ragazzi, che i contadini del nostro paese, come tutti del resto, avevano, ed hanno, l'abitudine di alzarsi molto presto la mattina e di avviarsi al lavoro alle prime luci dell'alba. Il tragitto da casa alla campagna, a quell'ora, con l'aria fresca e frizzantina, è piuttosto corroborante. E, mentre nelle case si sbadiglia, nelle campagne la vita brulica.

Una mattina, di tanto tempo fa, se ne andava, mogio mogio, sul suo carretto, un contadino. Si era messo in cammino un po' più presto del solito e, per la verità, se la prendeva comoda. Anche l'asino teneva un'andatura piuttosto sonnacchiosa.

Già i primi albori imperlavano il cielo e nel nido gli uccelli si agitavano. Qualche fruscio d'ali, qualche breve e flebile cinguettio in quel silenzio ancora pigro e la natura si ridestava, pervasa pian piano da un dolce tremito. Il carretto procedeva tranquillo e lo sguardo del contadino indugiava ora sulla strada, ora sulla campagna. Ogni tanto il suo orecchio si tendeva ad ascoltare lo stormire delle frasche mosse dalla brezza o da un animaletto che passava e spariva. Andava tranquillo, assorto e sonnolento, quando fu destato bruscamente dal suo torpore dal gracchiare di alcune gazze. Girò lo sguardo intorno per distinguerne la provenienza.

- Il nido dovrebbe essere qui intorno! - pensò il contadino.

E il nido era proprio là, tra i rami della quercia vicina.

Allora, miei cari ragazzi, le gazze, o piche, come dir si voglia, erano uccelli tenuti in gran considerazione, perché si ritenevano, e non a torto, tra i più domestici e simpatici. I contadini andavano alla loro ricerca e le tenevano in casa con grande cura, esclusivamente per la gioia loro e dei loro figli.

Anche al nostro contadino piacevano tanto le piche, ma non era mai riuscito ad appagare il desiderio di possederne una.

Quale buona occasione gli si presentava ora!

E si trattava di un nido intero!

Fermò subito il carro sotto la quercia e tentò di raggiungerlo. Ma era troppo alto! Come fare?

Portava con sé una lunga scala che gli serviva in campagna per la rimonda degli alberi; la prese, la sistemò sul carro, contro la quercia, e cominciò subito la scalata. Arrivò tra le chiome dell'albero e si fermò estasiato ad ammirare, ad un palmo dal suo naso, un nido di uccellini implumi.

Gli fecero tanta tenerezza e il desiderio di possederli tutti fu più forte di lui. Allora, delicatamente, cominciò a prenderli uno per volta e a nasconderli, al caldo, sotto la camicia.

- Li alleverò. Non farò loro mancare nulla - si disse - e li terrò sicuramente più protetti io che questa quercia!

Così mise a tacere i morsi della sua coscienza!

Cominciò allora a scendere lentamente: una mano scorreva lungo la scala, l'altra sosteneva gli uccellini ad ogni balzo. A metà si fermò per prendere fiato e, mentre ripensava alla fortuna che aveva avuto, come per scongiuro, si disse:

- Ci vorrebbe ora che qualcuno, passando, gridasse all'asino: ohoh! ohoh! - E gridò così forte ohoh! ohoh! che l'asino, scalciando, diede uno strattone al carro e, lanciatosi al galoppo, scomparve in fondo alla strada.

La scala dapprima vacillò, poi, perso ogni sostegno, si rovesciò e con essa precipitò al suolo anche il nostro malaccorto contadino.

Il volo e l'impatto violento con la terra schiacciarono le piche e ridussero il pover'uomo veramente a mal partito.

Quando riuscì ad alzarsi, tutto pieno di fratture, lividi e gonfiori, piangeva, piangeva disperatamente, e sapete per chi?

Per le povere piche!

- Oh, povere piche mie

- Oh, povere piche mie!

ripeteva inconsolabile, con le ossa rotte e senza più né asino, né carro.

 

(«Povere piche mie!» è un'espressione, non ancora scomparsa in alcune zone del meridione, con cui si suole apostrofare chi, colpito da tante disgrazie, si preoccupa solo di quella di minor conto.)

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