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La fortuna toccata ad un povero

C'erano una volta due fratelli, uno ricco sfondato e l'altro ricco di figli da sfamare ma povero assai. Il povero era soggetto al ricco e, quando proprio ne aveva di bisogno, chiedeva qualche aiuto a quella scorza di fratello che, puntuale come un orologio scassato, non si muoveva dalla sua scorzaggine: «Niente porti e niente hai! Ma lo sai quanti sacrifici devo fare per tenere insieme tutto il mio capitale? Io la notte non dormo a pensare a come risparmiare; a come fare per mettere soldo su soldo. Non sono un farfallone come te. Ti sei voluto accasare... hai fatto i figli... chi te lo ha ordinato? Il medico? No! L'hai voluto e ora friggiti! Sbarbatiello mio, lo sai o no che "se sparti ricchezza rimane povertà?"», da sopra e, porta al vento, lo mandava via scornato e senza aiuto. Un giorno il ricco, per levarselo davanti agli occhi, prese un porcello da sotto alla mamma scrofa e lo dette al fratello dicendo: «Crescilo e guadagnerai qualche cosa per la tua famiglia. Il povero non credeva alle sue orecchie e solo i suoi occhi, a vedere quella grazia diddio, gli fecero capire che stava con i piedi per terra e che nella sua mano teneva una zoca che si portava dietro il porcello. Alla casa fu festa e i figli erano contenti di avere un porco per compagno di giochi.

Ogni giorno, a turno o tutti insieme, i figli mettevano il maialetto alla zoca e lo portavano alla via della stazione sotto gli alberi di quercia a pascersi con le ghiande. Ben presto il porcello diventò un porco che era un piacere a vederlo camminare sui suoi quattro prosciutti. Tutta la famiglia se lo godeva con gli occhi e si preparava al grande momento di farsi una mangiata lunga più di un anno. E, mentre al porco cresceva carne e grasso, al fratello ricco  ingrassava il fegato per la bile e, al massimo della gelosia, prese di petto il  fratello povero in mezzo alla piazza e, come un punto eslamativo, così parlò: «Ehi a te: riporta il porco al masone! Ora che l'hai cresciuto deve tornare da dove è venuto! Mio era e mio rimane!». La faccia tosta del ricco la riconobbero tutti: "Prepotente e senza sangue!", lo chiamavano tutte le bocche del paese. Il povero fratello questa volta non ne potette più e, forte della sua memoria e dei suoi diritti, gli buttò in faccia la sua promessa: «Hai forse dimenticato che me lo desti perché dovevo guadagnarmi qualche cosa? Non puoi cambiare pensiero dopo che io l'ho campato tutto questo tempo!». E tira e molla "è mio" "no, è mio", arrivarono a mettere la questione nelle mani del giudice di Trani che doveva fare giustizia.

Bisogna sapere che i due stavano ad abitare in un paese di quattro case una chiesa e una piazza, vicino a Trani. Arrivato il giorno della causa, ricco e povero, si recarono alla città, dove stava il tribunale. Il ricco avanti a cavallo e il povero al trotto, lingua fuori, per stargli dietro. Giunti ad un punto trovarono un contadino che chiese  aiuto per alzare da terra il ciuccio che era caduto. Il ricco non si volle scomodare a scendere da cavallo, mentre il fratello, che sapeva quant'era amara la fatica, spinto da compassione, si buttò ad aiutare quello che credeva un poveraccio come lui. Uno da una parte l'altro dall'altra: il povero dalla coda, il contadino padrone dalla testa, tentavano di mettere il ciuccio sulle quattro zampe. Non vuoi che mentre stavano a fare queste moine, improvvisamente, si stacca la coda del ciuccio? Tutti i santi furono messi in riga dal contadino che, dopo aver santiato, pretese di essere risarcito del danno.

Il povero era dispiaciuto e, ogni tentativo di far capire al contadino che lui non aveva colpa, fu inutile. Niente! Il contadino se la pigliò tanto che chiamò l'altro in giudizio. Il ricco, dal cavallo, sentenziò: «Fatti i fatti tuoi e campi cent'anni!». Il fratello povero, con il muso appeso e i pensieri che gli cominciavano a pesare dentro la testa, si mise di nuovo in cammino dietro al fratello che cantava e se la rideva e avanti al contadino che non la finiva di prendersela per quanto era capitato. Il povero camminava e, ascoltando il canto a dispetto del ricco e il rosario del padrone contadino, cominciò a pensare ad alta voce: «Sorte amara amara. Che campo a fare? A che mi serve mettere un passo dietro l'altro? Arriverò dal giudice... e che mi posso aspettare? Mio fratello è ricco e con i suoi quattrini ingarbuglierà il giudice. Il padrone del ciuccio, per essere così sicuro, sicuramente avrà le tasche piene di soldi e.... Che campo a fare su questa terra? Meglio che mi ammazzi, così non faccio malesangue e finisco di soffrire!».

E, arrivato vicino a un burrone, senza guardare giù, si buttò di capo abbasso. Sotto stavano degli uomini a rivoltare la bambagia e lui nella caduta andò a sbattere sopra un uomo che, sfortuna su sfortuna, morì in  un amen. Il fratello del morto voleva vendetta e, per non finire in galera facendo un altro morto, si decise - anche lui - a volere giustizia. Inutile fu la difesa del povero che ripeté quanto aveva detto al padrone del ciuccio. Il zappatore era deciso di querelarlo. Ormai erano vicini a Trani e la processione dei querelanti e del querelato, dopo poco tempo, giunse a destinazione. Alla corte di Trani si presentò per primo il fratello ricco, che sciorinò le sue lagnanze. Il giudice stette a sentire e, alla fine con codice alla mano, rivolto al ricco dette la soluzione: «Visto l'articolo. Visto il codice. Visto le leggi dell'anno che si fecero, la corte stabilisce quanto segue: o tu paghi cento ducati di danni e lasci, a chi l'ha cresciuto, il porco o starai un anno in carcere». Il ricco, da ricco, sapendo che la Legge è Legge, senza pensarci due volte, pagò i cento ducati e, anche se un po' preoccupato per lo sguardo del giudice, azzardò: «Ma che almeno mi dia un prosciutto?!».  Solo quando il povero gli disse: «Eh, fratello mio spidocchione, ti sei scordato: «Se sparti ricchezza rimane povertà...?"», il povero ricco se ne tornò a casa con la cresta abbassata. Poi si trattò la causa del padrone del ciuccio. Anche questo ebbe torto e anche lui pagò duecento ducati di multa e prese la strada di casa. Infine si presentò al giudice il fratello del morto che raccontò l'accaduto.

Il giudice, dopo aver ascoltato, domandò al povero la sua spiegazione del fatto e come e perché era successo che l'accaduto aveva portato alla morte di una persona. Il povero così spiegò: «Signor Giudice... questa è la prima volta che ho a che fare con la giustizia e per me non è facile stare di fronte alla sua signoria e dire quello che ho pensato e che sto per dire: da sempre, si dice in paese, - ho pensato - "tutti i ricchi hanno sempre ragione..." e io non sono ricco. Da sempre, così si dice, - ho pensato - "è con i quattrini che si fa la giustizia..." e io non ho quattrini. Facendo questi pensieri, spinto dalla disperazione, mi gettai dal burrone per farla finita, ma - giuro, signor giudice - non potevo minimamente sapere che sotto ci fosse qualche cristiano! Lo giuro, signor giudice!». Allora il giudice disse che il povero, colpevole della morte dell'uomo, doveva mettersi a lavorare la bambagia ed il fratello del morto doveva buttarsi sopra. Quello, il fratello del morto, disse: «E se nel cadere muoio?» Il giudice allora sentenziò: «Vedi che hai torto a prendertela con questo povero cristo? Così stando le cose... Leggi comma e articoli... devi pagare trecento ducati di danno al povero!». Quello manco la bocca aprì, pagò e se ne uscì per prendere l'aria che gli mancava.

Il giudice consegnò al povero tutto il danaro, che quelli avevano pagato, e lo mandò libero. Quando il povero tornò alla casa, la moglie ed i figli, che lo credevano in carcere, lo accolsero ridendo e scherzando e, da quel giorno, vissero tutti felici e contenti.

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