approfondimento 

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Francesco Chiacone

 

 

C'era una volta un ragazzo che faceva di nome Francesco e di soprannome Chiacone. Perché? Ma perché teneva il vizio di tenere il dito grosso della mano destra sempre in bocca e, succhiando succhiando, se lo era fatto diventare grosso e molle a forma di ficosecco ovvero “chiacone”.

Era diventata una canzone. Ogni volta che Francesco scendeva in paese, subito veniva messo in mezzo al gioco da tutti i ragazzi che, zompando e battendo le mani, lo accompagnavano per le strade sfottendolo con una filastrocca.

 

Chiacone one one

succhia il dito a maccarone

e se pianta un centrone

si cazza il dito come un chiacone.

 

 

Ora bisogna sapere che la mamma di Chiacone, Addolorata, non aveva manco il tempo di dispiacersi di questo figlio, che non era stato scritto sul libro di quelli che contano, ma che lei teneva comunque dentro la casa e dentro il cuore, perché i figli, si sa, sono sempre figli, pezzi di cuore.

Un giorno che Francesco se ne stava bello, come uno sfaticato, sopra il divano, la mamma, che stava tutta sudata nella cucina a preparare qualche cosa per riempire la pancia, gli gridò di andare nel boschetto a fare un fascio di rami per accendere il fuoco.

– Madonna, ma’! E proprio mo’ devo andare, che mi duole assai il piede! Non lo posso neanche poggiare a terra, che non lo posso, perché ci ho una spina che mi punge forte forte, dentro dentro, e mi dà le botte, che mi dà.

– Se non fatichi, non mangi! - Replicò quella santa donna di Addolorata, per insegnargli qualcosa di buono al figlio.

– E allora non mangio! - Concluse il ragazzo a schiattamento, girandosi dall’altro lato per farsi un altro quartodora .

Ma mentre lui stava per andarsene al sonno, la mamma, crepata, gli fece arrivare una scarpa proprio in mezzo agli occhi, che gli si spalancarono immediatamente per scappare insieme ai piedi verso il boschetto. Lì, Chiacone, sicuro dei fatti suoi, si mise sotto l’ombra di una bella quercia, si schiaffò il dito grosso in bocca e, nemmeno il tempo di dire amen, prese il sonno.

In quel momento, si trovavano a passare da quelle parti le tre fate del boschetto che, a vedere quel quadro così curioso (grosso ragazzone tutto testa, rannicchiato sotto la quercia con quelle coscione rosse rosse e quel dito grosso grosso in bocca), si crepavano di risate.

– Da quanto tempo non capitava di farsi una risata così! - Disse una delle tre fate.

– Sì, è una vita che non succedeva! - Disse la seconda.

– Allora, visto e considerato, a questo guaglione così ridicolo gli dobbiamo dare un premio; giusto? - Disse la terza.

– Giusto! Giusto!

– Vogliamo fare che, appena lui dice un qualsiasi desiderio, il desiderio si realizza? Eh, vogliamo fare? - Sempre la terza.

– Vogliamo fare. Vogliamo.

E così le fate, fatte le faterie loro, se ne andarono canticchiando canticchiando per l’allegria.

Intanto, Francesco dormiva a sonno pieno e dormì fino a quando non sentì nell’orecchio, come in sogno, la voce di mamma Addolorata.

– Mangiapane a tradimentoooooo… pane persoooooo… ti vuoi ritirare sì o noooo!

Francesco s’alzò all’istante e cominciò a raccogliere rami su rami per fare una fascina. Stava per prenderla, quando si rese conto che era proprio brutto faticare; perciò si sedette a cavallo alla fascina per riposarsi e pensare.

– Eh! Come doveva essere bello se, invece di portare io il sarcinello, era lui, come un cavalluccio, a portare me, che a portare!

Detto e fatto: si ritrovò a cavalcare quella specie di cavallo senza né capo né coda. Era proprio bello, come aveva desiderato.

– Essè, Ehò! Ohoh! - Gridava eccitato Francesco, menando paccate alla sua stessa coscia.

E così - essè ehò ohoh - la fascina si divertiva anche lei a trottovolare; tanto che, prima di prendere la via di casa, si buttò a capo fitto dentro le strade del paese.

Questa strana cavalcata si trovò a passare anche davanti al castello del Re, dove le dame di compagnia della principessa Ceramara stavano a menarsi il vento sulla loggia. Quando si accorsero del fatto, subito scapparono a chiamare la padrona che, appena lo vide… Madonna, quante risate… lei e le dame.

Francesco le sentì quelle risate e capì che erano a caricatura verso di lui. Perciò, prima di scomparire dietro l’angolo, lui e la fascina, buttò una sentenza in direzione della principessina.

– Ceramara, Ceramara… così dovrai ridere anche quando, fra nove mesi, figlierai un figlio mio.

Francesco se ne tornò a casa e Ceramara, con tutte le altre, continuò a ridere.

Passato il santo, passata la festa? Ennò! La festa, se vogliamo chiamarla così, successe nove mesi dopo, quando Ceramara partorì un bel maschietto.

E com’è e come non è, il Re suo padre, Re Lasciamistare, s’incazzò di brutto e voleva giustizia.

– Ma da dove esce questo fatto? Di chi è questo bambino? A chi appartiene? - E ordinò - Portatemi qui il padre che, dopo che gli faccio un bel lisciebbusso, mi mangio il fegato, mi...

I consiglieri, che stavano lì apposta per consigliare, lo portarono sul filo del ragionamento e gli fecero capire che solo con le buone si poteva sbrogliare la matassa.

– Sire, facciamo uscire davanti alla porta la principessa con tutto il bambino e stiamo a vedere… se il bambino dà segno di conoscere il padre, allora… E li puniremo tutti e tre.

Il Re si calmò e ordinò. Quando la povera Ceramara, col bambino in braccio, si andò a mettere davanti al portone del castello, un mare di cristiani s’avvicinò a guardare. Anche Chiacone s’avvicinò a guardare. Si avvicinò, si avvicinò tanto, che il bambino fece col dito verso di lui e si mise a piangere ché voleva andare da lui. Fu così che il Re si trovò di fronte il colpevole…

Lo squadrò bene bene e, dopo averlo pesato con gli occhi, deliberò.

– Che questa immondizia di cristiano, insieme al frutto del peccato e alla traditora di quella che fu mia figlia, siano chiusi in un caratello e buttati a mare. Possa il mare fare da giudice e dare una calmata alla mia rabbia reale.

Ceramara, sapendo pure lei che col mare non si scherza, quando si trovò chiusa dentro il caratello, cominciò a capire veramente che cosa voleva dire quel proverbio, perché il mare, appena diventò padrone del caratello, cominciò a giocare a pallafaitu. Se lo metteva sulla punta di un’onda e da quella, oopplà, lo faceva rotolare sopra un’altra onda, e più stava e più s’agitava, il mare.

E, vedendosi persa, cominciò a pensare che era veramente arrivata l’ora sua.

– Che cosa! - Pensava. - Una morte che non auguro neanche ai cani! Dentro un caratello, con questa povera creatura innocente e questo scemo di guerra che se la gode con il dito in bocca e una faccia da festa patronale! Morire dentro un recipiente che è stato pieno di vino e che ha dato tanta allegria, invece mo’ è diventato una tomba che ci porta alla morte. - Poi, rivolta a Francesco. - Ehi, a te! Prima che l’acqua comincia a chiudere la via dell’aria, mi vuoi fare capire che cosa è successo? E com’è possibile che tu sei il padre di mio figlio? E poi… perché? E perché ci sono tanti perché ai quali non so rispondere? Io, a te, ti ho visto solo una volta quando, scemo scemo, te ne andavi a cavallo a un sarcinello. E poi? - E aspettò una risposta.

– Io tengo fame! Voglio fave e cicoria! Se vuoi che ti conto la storia, dammi dammi fave e cicoria! - Disse semplicemente Chiacone, proprio come un chiacone.

E, subito, il suo desiderio diventò fave e cicorie; tante fave e tante cicorie, che un altro poco non si poteva stare più nel caratello. Subito Francesco si abbuffò e cominciò a contare la sua storia fino alla sentenza che aveva buttato addosso a Ceramara.

La poveretta, che era intelligente, afferrò a volo la situazione e capì anche che quel babbeo che teneva appresso poteva realizzare desideri. Ma, mentre stava studiando il sistema per cambiare le cose da così a così, uno schianto fece aprire il caratello sopra uno scoglio.

– Evviva, l’ora è fuggita, non si muore più! - Pensò la principessa, mentre agguantava il piccoletto, che con i suoi uè uè dava voce alla paura.

Quindi si rivolse a Chiacone.

– Mo’ che siamo sulla terra, perché non ce ne andiamo ad abitare dentro un bel castello? Proprio qui, vicino al mare, eh? Così possiamo prendere tanti pesci e campare come si deve! È vero che vuoi abitare dentro un castello, prendere tanti pesci e campare come si deve, Chiacone mio? - Chiese, ad arte, Ceramara a Chiacone.

– Se vuoi che ti cambio la storia, dammi dammi fave e cicoria! - Replicò a ritornello il piglianculo.

Di nuovo abbondanza di fave e cicoria e di nuovo grande abbuffata. Con la pancia piena e qualche rutto, lo scemo disse finalmente il desiderio…di Ceramara.

– Come doveva essere bello se proprio qui c’era un castello, così poi da qui dovevo pescare per campare come si deve!

Ed ecco che, in un lampo e senza fastidi, si trovarono dentro un castello da favola.

Era proprio da ridere a vedere Chiacone vestito con una tuta da pescatore di lusso con in mano una canna all’ultima moda che aveva attaccati all’amo tanti pesci, uno in bocca all’altro… come una lunga catena di pesci di tutti i colori. E ridevano tutti, servi e principessa. Anche il piccolo miagolò di contentezza e stese le braccia verso il padre, che però non aveva capito un tubo.

Per fortuna che Ceramara sapeva ciò che si doveva fare e, proprio per questo e per non tenersi più davanti agli occhi quella faccia stupida, sperò in un’altra fateria.

– Eh, come doveva essere bello se tuo figlio aveva un padre aggraziato e con un cervello dentro la cocozza! Non ti pare, mio signore?

– Se mi dai fave e cicoria, posso cambiare faccia e memoria.

Accadde così che, dopo quest’ultima portata, Chiacone, come se nulla fosse, si trasformò completamente, da ficosecco in un bel fico…di giovane Francesco. Le risate cessarono e Francesco, trascinato dalla canna, senza più pesci all’amo, si ritrovò in faccia al mare, dove subito subito capì cosa voleva dire la madre quando gli diceva che il lampasciolo se lo vuoi lo devi scavare.

Passarono gli anni… una decina d’anni.

I due, Francesco e la principessa, vivevano felici e contenti vicino al mare e con i frutti del mare, mentre il piccolo Odoredimare (così lo avevano chiamato per gratitudine verso quel mare che tanto benessere aveva saputo dare loro) cresceva come un signore.

E il Re padre? Il Re padre, Re Lasciamistare, s’era chiuso dentro il palazzo e dentro sé stesso e non voleva vedere più nessuno. I consiglieri sempre a consigliare.

– Sire… dovete uscire! Così si può morire! Bisogna reagire! Mio Sire, Tuo Sire, Nostro Sire!

Inutile! Era tosto, finché, finalmente, si fece convincere ad accettare l’invito di un suo collega Re, che lo aveva chiamato ad una battuta di caccia nel Regno di Motelodò. Mica lo sapeva quello che gli stava per succedere!

Si mise in viaggio con la meglio delle sue navi e, navigando navigando, non si va a guastare la nave proprio dalle parti di un castello che stava vicino al mare? E non vuoi che, col cannocchiale, la prima persona che vede sulla terraferma è proprio un pescatore? E non vuoi che, senza saperlo, quel pescatore è proprio suo nipote Odoredimare? E non vuoi che è proprio Odoredimare che, senza saperlo, lo aiuta a sbarcare aiutato da tutti i servitori del castello?

Re Lasciamistare chiese ospitalità e, come se era destino, l’ospitalità gli fu data proprio dal nipote, che lui aveva conosciuto soltanto in fasce. Fu allora che il Odoredimare, che per natura sentiva forte la voce del sangue, gli gettò le braccia al collo e si mise a gridare.

– Tatà Sire, tatàsire! Finalmente!

Lasciamistare, questa volta, si fece abbracciare con piacere dal nipote ed ebbe ancora più piacere quando vide comparire sua figlia insieme a un bel giovane che, poi glielo spiegarono, era proprio quella specie di cristiano che aveva mandato a morte.

Pace fatta capo ha… e, così, la famiglia riunita si imbarcò sul legno per raggiungere, mare mare, il Regno di Lasciamistare, dove fecero una tale festa che ancora oggi, se vi trovate a passare di là e chiedete a qualcuno, vi sentirete ripetere la famosa storia di Francesco Chiacone.

Io vivo felice e contento! E tu?

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